FRATI CAPPUCCINI DI CIVITANOVA ALTA
1° INCONTRO
2° INCONTRO
3° INCONTRO
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Scuola di preghiera
1° INCONTRO
2° INCONTRO
Scuola di preghiera
Scuola di preghiera
2019-2020
La preghiera del cuore (2)
La preghiera del cuore (2)
1° INCONTRO
Cominciamo con questa serata un nuovo
anno di Scuola di preghiera. Abbiamo scelto di non iniziare un nuovo percorso
ma di continuare quello iniziato l’anno scorso per approfondire e assimilare
meglio la preghiera del cuore. Essa, infatti, non è difficile da comprendere ma
non è facile da assimilare. La preghiera non è da capire ma da vivere, e non la
comprende se non chi la vive. Davvero, come affermava un padre spirituale «la preghiera è un dono che Dio fa a chi
prega». Ci daremo perciò il tempo necessario per ritornare su alcuni
aspetti visti nell’anno precedente e per fare qualche passo in avanti con
alcuni aspetti nuovi.
La preghiera del cuore – ripeto
all’inizio quanto detto lo scorso anno – è una forma di preghiera molto antica
che risale ai Padri del deserto dei primi secoli, Macario l’Egiziano, Evagrio
Pontico ed altri e sorge nel contesto di quel movimento chiamato Esicasmo, il cui padre è il monaco
Arsenio (IV sec.) e che poi si è diffusa nel corso dei secoli, in maniera
particolare negli ambienti monastici delle chiese d’oriente, ma non solo.
Questa preghiera ha avuto i suoi principali focolai di vita nei monasteri del
Sinai, fin dal VI secolo, e in quello del Monte Athos, soprattutto nel XIV
secolo. Dopo la fine del sec. XVIII essa si è diffusa al di fuori dei monasteri
per influsso di un’opera, la Philokalia,
pubblicata da un monaco greco, Nicodemo Agiorita; un’altra opera più recente
della fine del XIX sec., diffusissima in Russia, I racconti di un pellegrino russo, ha contribuito a renderla
popolare e seguendo le tappe del pellegrino russo, anche noi abbiamo iniziato
lo scorso anno a conoscere la preghiera del cuore.
In questa prima sera, vorrei
semplicemente ripercorrere con voi cinque tratti fondamentali della preghiera
del cuore che abbiamo visto lo scorso anno e che dobbiamo fissare bene, come
dei fondamenti imprescindibili da tenere sempre presenti nel nostro cammino di
preghiera.
1 – Prega
chi ha sete di Dio, o forse, detto in maniera più esatta, prega
Colui nel quale Dio ha posto la sete di Lui. La preghiera nasce da un
moto interiore dell’uomo – e già questo è una grazia – che avverte in sé il
bisogno entrare in comunione con Dio. Anche tu puoi esclamare con il salmista: «L’anima
mia ha sete del Dio vivente» (Sal 42). Dice Gregorio di Nazianzo con
una espressione luminosa: Deus sitit sitiri, Dio ha sete della
nostra sete, desidera essere desiderato. Chiediamo al Signore il dono di questa
sete interiore che ci muoverà e ci disporrà a ricevere la sua acqua.
2 – Vivere continuamente alla
presenza di Dio. Il
secondo punto lo abbiamo ribadito più e più volte l’anno scorso. La finalità di
questa preghiera non è quella di ottenere delle grazie particolari, di essere
anzitutto esauditi nelle nostre richieste, di ottenere da Dio ciò che gli
domandiamo. Non è neanche una preghiera che punta al benessere interiore, alla
distensione del cuore, una sorta di pratica antistress contro la frenesia del
nostro mondo. Non è il benessere
psicofisico che può venire da una tecnica di rilassamento ma la coscienza che
viene riempita dalla presenza amorosa di Dio. Questa preghiera nasce come
risposta a quanto leggiamo nelle Sacre Scritture: «Pregate ininterrottamente»
(1 Tes 5,17) ed era quello che voleva capire il pellegrino russo, come ciò
fosse possibile; «In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e di
suppliche nello Spirito» (Ef 6,18); o anche sulla parabola della vedova
importuna che Gesù racconta per spiegare la «necessità di pregare sempre, senza
stancarsi mai» (Lc 18,1), e sulla sua parola d’ordine: «Vegliate e pregate in
ogni momento» (Lc 21,36). La grazia che questa preghiera dona è di vivere
continuamente alla presenza di Dio. Non quindi uno stare con il Signore
a intermittenza, solo in alcuni luoghi circoscritti, come quando siamo in
chiesa, o in alcuni tempi specifici, come quando siamo in preghiera, o leggiamo
la parola di Dio, o celebriamo dei sacramenti, ma sempre, in ogni luogo e in
ogni tempo. La caratteristica di questa forma di preghiera è che, se praticata con costanza, essa pervade
l’anima della persona a tal punto da mantenerla in dialogo con il Signore anche
in mezzo alle mille occupazioni quotidiane. In ogni momento e in ogni luogo
della nostra vita, che stiamo lavorando o che riposiamo, in casa o in altro
luogo, da soli o in compagnia, sempre
possiamo vivere in una relazione continua con il Signore, senza mai
staccarci da Lui, illuminati costantemente dalla sua presenza e dalla sua
parola. Come disse il Signore a una laica mistica del secolo scorso: «Che non
ci sia nella tua vita alcun momento in cui io sono di troppo. Capisci amica
mia?». La preghiera del cuore fa sì che la presenza di Dio non sia mai di
troppo in nessuna circostanza della vita.
3 – La centralità del cuore. Questa forma di preghiera non è una
preghiera fatta con le labbra, né una preghiera intellettuale, densa di molti
pensieri, ma si radica nel cuore della persona. Il cuore non inteso in senso romantico, come
sede dei sentimenti e delle emozioni, ma secondo l’accezione biblica. Dobbiamo
riappropriarci del significato cristiano del termine cuore, che la Bibbia
descrive come la fonte di tutte le energie fisiche, emozionali, intellettuali,
volitive, morali e religiose della persona. In sostanza, il cuore indica quel nucleo che racchiude la totalità della vita
interiore e che abbraccia tutte le facoltà e le attività dell’uomo: il
cuore conosce, decide, sente, ricorda, in esso si vive la relazione con Dio. Il cuore è «l’organo dell’insieme» della
persona, il centro vitale dell’uomo.
Come disse un grande conoscitore della preghiera del cuore, Teofane
il Recluso, «se il cuore è al centro della persona umana, allora è
attraverso il cuore che l’uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste».
Perciò, in questa preghiera l’uomo deve smettere di essere alla periferia della
sua persona per collocarsi al centro di se stesso, deve apprendere a stare nel
suo cuore, ad essere presente a se stesso nel suo nucleo più profondo.
4 – Il cuore è abitato da Dio. Questa verità è essenziale alla
preghiera e sempre troppo poco sottolineata. Purtroppo, non ne abbiamo
coscienza. Noi «siamo il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,16). C’è un mistero
che ci abita, la presenza di Dio al fondo di noi stessi. «Non sapete che siete
tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 4,16). Dentro di
noi c’è una presenza divina. Non dobbiamo sforzarci di conquistarla, non
dobbiamo adoperarci per meritarla, ci è donata in maniera gratuita con il dono
del battesimo. Siamo abitati da Dio, siamo tempio della Santissima Trinità. In
noi vive quell’amore che circola nella vita divina dei tre. La vita di Dio non
dobbiamo portarla dentro di noi a forza di preghiere, non è una realtà esterna
che dobbiamo trasferire all’interno, piuttosto è una presenza interna che
dobbiamo lasciar emergere e custodire. Finché
cerchiamo di far nascere la preghiera a partire dall’esterno non arriveremo mai
a pregare veramente. Possiamo scoprire di avere in noi un cuore di
preghiera.
5 – Il cuore è trasfigurato dalla presenza
di Dio. Come
ricorda il profeta Ezechiele «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno
Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.
Porrò il mio Spirito dentro di voi» (Ez 36,24-27). La Scrittura presenta il
cuore come il luogo in cui è infuso lo Spirito del Signore: «Dio stesso ci ha
impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito Santo nei nostri
cuori» (2 Cor 1,21-22). A forza di ripetere la preghiera di Gesù, l’orante discende
nelle profondità del proprio essere e il nome di Gesù libera il dinamismo dello
Spirito imprigionato in lui. La gloria del risorto può quindi penetrare tutta
la sua persona, spirito, anima e corpo e irradiarsi in tutto il suo essere. È la trasfigurazione della vita dell’uomo,
il quale viene illuminato completamente dalla presenza di Dio che abita in lui.
È il cuore vivificato dallo Spirito di Dio, il cuore che si dispone a
vivere una relazione filiale con il Padre, il cuore del Figlio di Dio nel nostro
cuore. Il cuore nuovo è il cuore del Figlio per mezzo del quale ora posso
vivere in una relazione di amore con il Padre.
2° INCONTRO
L’ultima volta, primo incontro del
nuovo anno della Scuola di preghiera, abbiamo ripreso in sintesi gli aspetti fondamentali della preghiera del
cuore, sintetizzando in essi tutto il percorso dell’anno precedente:
1) Il punto di partenza: la sete di Dio,
il desiderio di Dio;
2) La meta finale: vivere continuamente
alla presenza di Dio;
3) Il punto centrale: il cuore come
nucleo vitale della persona;
4) Il cuore come luogo abitato dalla
presenza viva di Dio;
5) Il cuore luminoso, trasfigurato dalla
presenza di Dio.
Ora vorrei riprendere con voi il cammino del pellegrino russo dal punto
in cui lo avevamo lasciato lo scorso anno. Egli aveva camminato a lungo,
incontrato diversi maestri, ciascuno dei quali lo aveva aiutato a compiere un
passo in più nella sua crescita spirituale e si era impegnato a praticare in
maniera continua la preghiera del cuore, quella preghiera sintetizzata nella
formula: “Signore Gesù Cristo, Figlio di
Dio, abbi pietà di me”. Iniziò così a provare una profonda consolazione
interiore, lacrime di gratitudine, un amore bruciante al Signore, una luce
nuova nella mente, e la percezione vivissima dell’infinita presenza di Dio, al
punto da capire finalmente cosa significasse la frase del Vangelo: “Il regno di
Dio è dentro di voi” ed essere inondato dalla gioia. Sembra la descrizione del
paradiso interiore, il frutto maturo della preghiera, ciò che incoraggia anche
noi a continuare il nostro cammino perché anche noi desideriamo gustare e vedere quanto è buono il Signore, come dice
il Salmo 33. Il pellegrino prosegue il suo racconto così:
«Tanta
dolcezza mi fece capire che gli effetti della preghiera interiore si
manifestano sotto tre forme:
-
Nello spirito è la soavità dell’amore
di Dio, la quiete interiore, la felicità spirituale, la limpidezza dei
pensieri, il dolce ricordo di Dio;
-
Nella parte sensibile il gradevole
calore del cuore, la delizia di tutte le membra, il gioioso fervore del cuore,
leggerezza, coraggio, vigore vitale, insensibilità alle malattie e ai dolori;
-
Nell’intelletto, l’illuminazione
della mente, la comprensione della Sacra Scrittura, la conoscenza del
linguaggio della creazione, il distacco dalle cure vane, la consapevolezza
delle gioie della vita interiore e infine la certezza della vicinanza di Dio e
del suo amore per noi».
Potremmo dire, in
sintesi, che la preghiera del cuore opera
una trasformazione dell’uomo non solo in una parte di lui ma in tutte le
dimensioni della sua persona. Essa contagia della presenza divina tutte e
tre le grandi dimensioni dell’uomo: quella spirituale, quella psichica e quella
fisica. E lo fa a partire da quella che è la dimensione più profonda dell’uomo,
dal suo centro, dallo spirito, che poi si irradia in tutta la persona. Quando
la dimensione spirituale dell’uomo
partecipa dello Spirito di Dio, essa è vivificata dal suo amore divino, dalla
sua dolce presenza, dalla sua gioia rasserenante e irradia i suoi effetti
benefici anche alla dimensione psichica
illuminando la mente con pensieri nuovi, pensieri che sanno di Vangelo e che
vengono da Dio, per i quali l’uomo intuisce il senso profondo e personale delle
Scritture, vede nelle opere della creazione la mano di Dio, comprende la
vicinanza di Dio alla sua persona. Acquistano in tal modo un senso vivo le
parole del salmo 35: «È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la
luce». Infine, anche il corpo, che
non è slegato dalla dimensione spirituale e psichica, ma forma un tutt’uno
organico con esse, percepisce un vigore e un coraggio nuovo, calore e
leggerezza interiore, e un sano e sereno distacco dai dolori e dalle malattie.
Tutto l’uomo è rinnovato dalla presenza di Dio, tutto di lui è trasfigurato
dalla luce della sua presenza.
Ora, questa attenzione
alla presenza di Dio, così tipica della preghiera del cuore, vorrei collocarla all’interno
del tempo liturgico, il tempo forte dell’Avvento per disporci ad accogliere la
grazia spirituale che in esso è contenuta. Il tempo di Avvento ha tre
caratteristiche essenziali che ne fanno un tempo forte perché ci immettono
nella giusta disposizione d’animo per accogliere il Dono più grande che
possiamo ricevere: la visita di Dio stesso nella persona del suo Figlio, una
visita che richiede una profonda disponibilità a lasciarsi cambiare dalla sua
venuta.
1)
È un tempo di inizio e di speranza. Annuncia il profeta Isaia: «Un
germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1) e il profeta Geremia
fa eco a queste parole: «Ecco, verranno giorni nei quali io realizzerò le
promesse di bene che ho fatto alla casa di Israele e alla casa di Giuda». L’Avvento è un tempo in cui ricominciare,
in cui ci disponiamo a un nuovo inizio: non è cosa scontata, implica la
decisione di non trascinare avanti le cose come abbiamo fatto finora ma di
aprirci alla novità, di disporci al cambiamento, di dare al Signore la
possibilità di cambiare qualcosa della nostra vita. «La notte è avanzata, il
giorno è vicino» ci dice san Paolo nella lettera ai Romani (Rom 13,12) e ciò
suscita in noi la speranza di una rinascita della nostra storia, di un nuovo
inizio che riempia di vita nuova, di senso, di amore, di luce, la nostra
esistenza.
2) È un tempo di attesa: dice ancora
il profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19).
L’Avvento ci fa entrare nella dimensione dell’attesa, una dimensione
fondamentale dell’esistenza perché io percepisco la realtà in base a ciò che
attendo. L’attesa fa la percezione, e allora in questo tempo ci possiamo
fermare e vorrei chiederti: “tu cosa attendi?”. C’è nel tuo cuore l’attesa di
Dio? Ricorda quanto dice la Scrittura: «Ancora un poco, infatti, un poco
appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà» (Eb 10,37). L’attesa crea
spazio, sgombra il campo, dispone all’accoglienza. Ricorda in questo tempo che
il Signore viene, viene per te, e disponi il tuo cuore ad accoglierlo: forse
dovrai farlo con il pentimento dei tuoi peccati, chiedendo perdono, oppure
aprendoti alla gratitudine per i tanti beni ricevuti. In ogni caso, lascia che
l’attesa della sua venuta ti modifichi il cuore.
3) È un tempo di vigilanza e di
preparazione:
molte sono le espressioni evangeliche che risuonano nel tempo dell’Avvento:
«tenetevi pronti», «fate attenzione», «state attenti a voi stessi che i vostri
cuori non si appesantiscano» (Lc 21,34), «vegliate in ogni momento pregando»
(Lc 21,36). L’Avvento chiede di essere svegli, non addormentati, vigili su se
stessi, e di preparare il cuore sgombrandolo dagli ostacoli che impediscono la
venuta del Salvatore nel nostro intimo. «Gettiamo via le opere delle tenebre e
indossiamo le armi della luce» dice san Paolo (Rom 13,12). Prepararsi significa
scegliere, e scegliere significa nel tempo dell’Avvento decidere cosa togliere
dalla nostra vita e cosa mettere nella nostra vita. Il Signore che è venuto a Betlemme
nell’umiltà della grotta, vuole venire nel nostro cuore. La preghiere del cuore
che vogliamo vivere ci aiuterà a vivere nel nostro cuore questa triplice
dimensione di inizio, di attesa, e di preparazione.
3° INCONTRO
Continuiamo il nostro percorso sulle tracce del pellegrino russo il quale
desideroso di comprendere come fosse possibile accogliere l’esortazione di san
Paolo ai tessalonicesi «Pregate ininterrottamente» (1 Tes 5,17) inizia il suo
itinerario verso la preghiera del cuore obbedendo alle indicazioni che, di
volta in volta, i vari maestri gli venivano amministrando, in maniera
particolare la ripetizione della preghiera: “Signore
Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Così racconta ad
un certo punto come la preghiera sia diventata parte di lui, come un qualcosa
di connaturale: «mi abituai talmente alla
Preghiera di Gesù che la ripetevo senza interruzione. Alla fine mi accorsi che
essa si generava da sé, senza alcun intervento da parte mia, nel profondo della
mia mente e del mio cuore, non solo mentre vegliavo ma anche mentre dormivo,
senza interruzioni, qualsiasi cosa io facessi. La mia anima ringraziava
continuamente il Signore e il mio cuore si scioglieva in una costante
dolcezza». Il pellegrino russo portava sempre con sé come un tesoro prezioso
il libro della Filocalia e si
immergeva nella lettura dei grandi maestri dello Spirito, che lo aiutavano nel
suo cammino spirituale. In una di queste luminose pagine vi lesse: «Bisogna imparare a invocare il nome di Dio
con un ritmo più frequente del respiro, in ogni momento, in ogni luogo e
durante ogni occupazione. L’apostolo insegna: “Pregate ininterrottamente”. Egli
insegna cioè che bisogna avere il ricordo di Dio in ogni momento, luogo e
circostanza. Se stai facendo qualcosa devi richiamare alla mente il Creatore di
ogni cosa; se vedi la luce, non dimenticare Colui che te l’ha data; se il
cielo, la terra, il mare e tutto ciò che si trova in essi, ammira e glorifica
Colui che li ha creati; se indossi un abito ricorda Colui che te l’ha donato e
ringrazialo perché provvede alla tua esistenza. In breve, ogni tua azione ti
sia pretesto per ricordare e glorificare Dio, ed ecco, in questo modo tu
pregherai incessantemente e la tua anima sarà sempre lieta».
La preghiera del cuore è una
preghiera semplice. Non richiede uno sforzo mentale, un ragionamento complesso,
delle parole ricercate. È una preghiera
leggera fatta di semplicità perché non parte dal cervello ma dalla vita. C’è
la preghiera e c’è la vita: molte volte sono per noi due canali non
comunicanti. Noi viviamo, poi ogni tanto ci fermiamo e “diciamo delle
preghiere”. Il tempo delle preghiere è una parentesi in mezzo alla vita. Invece
la preghiera del cuore unisce la vita alla preghiera (non alle preghiere!). È come se dovesse tessere in un’unica trama
due fili, un filo marrone che è la terra in cui l’uomo vive, con le sue
occupazioni giornaliere, e filo azzurro che il cielo, luogo del mistero di Dio.
La preghiera del cuore combatte la dimenticanza di Dio, ci ricorda che siamo
noi gli assenti e non Dio, ci fa stare alla sua presenza. È una preghiera incessante che permette di non sottrarsi mai
all’influsso della vita di Dio. In
tal modo niente di quello che vivo viene slegato dalla presenza di Dio ma tutto
è colto insieme con Lui, tutto entra a far parte della sua storia, tutto è
vissuto nel suo Spirito. La
preghiera del cuore sviluppa la percezione di una continua compagnia, un
dialogo con il Signore che accompagna ogni situazione e in cui l’amore di Dio
penetra il cuore e si manifesta nella vita concreta. Giovanni Crisostomo
dice che chi trova la porta del proprio cuore, scoprirà che è la porta del
regno di Dio. Chi, con la preghiera, sveglia il proprio cuore, lo scopre abitato
e perciò sarà alla continua presenza di Dio.
Per giungere a ciò quale via utilizza la preghiera del cuore? La continua
invocazione del nome del Signore, e stasera per la prima volta ne faremo per la prima volta un
piccolo assaggio. Però, per vivere bene la preghiera del cuore dobbiamo capire
bene alcuni presupposti essenziali perché non si può insegnare a pregare a
qualcuno più di quanto gli possa insegnare ad amare, a rallegrarsi o a
piangere. Bisogna semplicemente lasciar
respirare la vita trinitaria in noi. Solo lo Spirito Santo nascosto nel
profondo del nostro cuore può insegnarci a pregare.
1) La preghiera del cuore non è un mantra rilassante che a forza di ripetizioni di una
formula introietta nel cuore una convinzione mentale, ma è l’emergere della mia verità di cristiano, cioè di un figlio in una
continua relazione d’amore con il Padre. Mi scopro un Figlio sotto il
continuo sguardo d’amore del Padre e che vive la sua vita come risposta a
questo amore. Scopro la verità di quanto afferma Gesù nel Vangelo di Giovanni: «se uno mi ama, osserverà la mia parola e
il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui»
(Gv 14,23). Cristo ci chiede di vivere in
lui, nel suo amore, come il tralcio nella vite. Accade allora questa unità
d’amore con Cristo: «rimanete in me e io
in voi» che ci fa vivere da figli in continuo riferimento al Padre.
2) La preghiera del cuore – come
d’altronde ogni preghiera cristiana – non è una preghiera mia ma dello Spirito
di Dio che abita in me fin dal giorno del battesimo. Chi è che prega? Chi è il protagonista della preghiera cristiana? Non
io, ma lo Spirito di Dio che è in me. Allora la vera preghiera non è dire molte
preghiere ma lasciar pregare lo Spirito in noi, e questa è una vera arte da
apprendere con un lungo apprendistato. Non
è uno sforzo di concentrazione, ma è togliere ogni impedimento allo Spirito,
renderlo libero di pregare. Non è sforzarsi di pregare ma lasciar pregare
lo Spirito in noi. Noi, ci ricorda san Paolo nella Lettera ai Romani «non sappiamo come pregare in modo conveniente,
ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). E chi è lo
Spirito? Egli è la comunione d’amore tra il Padre e il Figlio e lo Spirito ci
porta dentro questo infinito rapporto d’amore del Padre e del Figlio, ci fa
vivere dentro questo Spirito, ci santifica nell’amore.
3) Il terzo e ultimo punto è l’invocazione
del nome di Gesù, la continua ripetizione del suo santo nome. La preghiera del cuore consiste in una invocazione incessante del nome di
Gesù e attinge la sua forza dalla potenza del nome divino. Non si trattta
semplicemente dire un nome o attivare un ricordo ma in quel nome c’è tutta la
potenza di Colui che lo porta. Egli è il risorto, e perciò è portatore del suo
Spirito di vita. Come proclamò Pietro alla folla di
Gerusalemme dopo la Pentecoste: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà
salvo» (At 2,12). Invocare significa “chiamare dentro” e chi invoca il Signore
lo chiama dentro di lui affinché la sua vita viva in lui: ecco perché è salvo
dalla morte. Il nome è la persona stessa: il nome di Gesù salva, guarisce,
purifica il cuore da ogni forma di male. Consiste nel ripetere incessantemente
la formula: «Signore Gesù Cristo, Figlio
di Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13 e 18,38): è il grido del
cieco di Gerico che implora da Gesù la guarigione, ed è anche la preghiera del
pubblicano al tempio. Possiamo ripeterla nel silenzio, lentamente, come una
continua litania, farla calare pian piano nel cuore, sentire il gusto e la
profondità delle parole che pronunciamo e lasciare che la grazia dello Spirito
operi in noi.
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Scuola di preghiera
Se sei assetato di preghiera, che è come dire, essere assetato di Dio, puoi fare
tue le parole del salmista: «L’anima mia ha sete del Dio vivente»
(Sal 42). Lascia allora che ti incoraggi riportandoti due parole che possono
attirarti ad affrontare il cammino che si distende dinanzi a noi. Santa Teresa d’Avila ha scritto: «La preghiera del cuore è come una scintilla
di vero amore di Dio che il Signore comincia ad accendere nell’anima» e San Giovanni Crisostomo: «La preghiera è un bene sommo, è una
comunione intima con Dio, deve venire dal cuore, deve fiorire continuamente,
giorno e notte. È luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e
l’uomo; è un desiderare Dio, è un amore ineffabile prodotto dalla grazia
divina».
Nella
Scuola di preghiera di questo nuovo anno vorremmo presentarti la conoscenza e
la pratica di una preghiera assai profonda, una preghiera che impegna
fortemente l’interiorità dell’uomo, la cosiddetta Preghiera di Gesù o Preghiera del cuore. Il percorso che
vogliamo intraprendere attraverso questa forma di preghiera, diciamocelo
subito, ha come traguardo il vivere
continuamente alla presenza di Dio. Avremo modo nel corso dei vari
incontri, di entrare più nel dettaglio di alcuni suoi contenuti specifici, ma non
sarà male in questo primo incontro fare qualche accenno introduttivo alla genesi e alla diffusione di questa preghiera
lungo la storia. È una forma di preghiera molto antica che risale ai Padri
del deserto dei primi secoli, Macario l’Egiziano, Evagrio Pontico ed altri, e
che poi si è diffusa nel corso dei secoli, in maniera particolare negli
ambienti monastici delle chiese d’oriente, ma non solo. Se in Oriente si parla
della Preghiera del Nome, di preghiera
monologica o di preghiera pura, in Occidente si parla di Orazione interiore, di quiete o di semplicità. Questa preghiera ha avuto i suoi principali focolai
di vita nei monasteri del Sinai, fin dal VI secolo, e in quello del Monte
Athos, soprattutto nel XIV secolo. Dopo la fine del sec. XVIII essa si è
diffusa al di fuori dei monasteri per influsso di un’opera, la Philokalia, pubblicata da un monaco
greco, Nicodemo Agiorita; un’altra opera più recente della fine del XIX sec.,
diffusissima in Russia, I racconti di un
pellegrino russo, ha contribuito a renderla popolare.
È
di grande importanza per comprendere bene questa preghiera, ambientarla nel movimento
spirituale che le ha dato origine. Il contesto in cui sorge questa preghiera è
quello dell’esicasmo: l’esicasmo è
una tendenza particolare della spiritualità monastica. La parola viene da hesichia che, nel linguaggio
dei monaci, designa il silenzio, la pace dell’unione con Dio, la quiete del
cuore. Se per i monaci il vero padre è Antonio, per gli esicasti è Arsenio (IV sec.), che, dopo aver
lasciato il palazzo imperiale, divenuto anacoreta udì una voce al cielo che gli
diceva: «Arsenio, fuggi, taci, rimani tranquillo».
Si può definire l’esicasmo come una
forma di spiritualità basata sulla quiete interiore e il cui orientamento è
essenzialmente contemplativo. Si cerca la solitudine, il silenzio,
interiore ed esteriore, per arrivare a una quiete profonda. Tuttavia, e questo
va specificato bene, per non confondere questa forma con una specie di yoga
cristiano, l’esicasmo non vede nella pace o nella tranquillità un fine in sé,
ma un mezzo per arrivare all’unione con
Dio.
Vorrei farvi ascoltare un passo delle Fonti Francescane che parla
dell’amore di San Francesco alla preghiera sembra di vedere in Francesco un
perfetto esicasta. Così scrive Tommaso da Celano parlando del Santo di Assisi: «L’anima di Francesco era tutta assetata del
suo Cristo e a lui si offriva interamente nel corpo e nello spirito. Trascorreva tutto il suo tempo in santo raccoglimento
per imprimere nel cuore la sapienza; temeva di tornare indietro se non
progrediva sempre. E se a volte urgevano visite di secolari o altre faccende,
le troncava più che terminarle, per rifugiarsi di nuovo nella contemplazione.
Perché a lui, che si cibava della dolcezza celeste, riusciva insipido il mondo,
e le delizie divine lo avevano reso di gusto difficile per i cibi grossolani
degli uomini. Cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo
con lo spirito, ma con le singole membra al suo Dio. E se all’improvviso si
sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una
piccola con il mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto
con la manica per non svelare la manna nascosta. Sempre frapponeva fra se´ e
gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello sposo:
cosı` poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio
di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un
tempio del suo petto. Assorto in Dio e dimentico di se stesso, non gemeva né
tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno
esteriore» (FF 681).
Avremo
modo di tornare con più calma su alcuni aspetti particolari dell’esicasmo, per
ora ci basti dire che da questo movimento nasce la Preghiera di Gesù che pian piano inizieremo a conoscere e praticare
e che si condensa nella formula: «Signore
Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». Si
potrebbe anche dire che la preghiera di Gesù, per la sua brevità e semplicità, umilmente
utilizzata, conviene particolarmente all’uomo di oggi, che crede di non avere
tempo di pregare. Se si pratica almeno un poco questa preghiera, si scopre che
si ha per pregare molto più tempo di quanto si supponeva: quando si sale una
scala o si esegue un lavoro ripetitivo, o si fa uno stacco nel corso di una
conversazione, o ci si raccoglie un istante durante un lavoro intellettuale,
ecc. Un monaco della chiesa d’oriente ha scritto: «L’invocazione del Nome di Gesù è alla portata degli adoratori più
umili, e nondimeno introduce nei misteri più profondi. Essa si adatta a tutte
le circostanze di tempo e di luogo: i lavori dei campi, dell’officina, d’ufficio,
di casa, sono compatibili con essa».
Tale
preghiera si fonda sulle esortazioni dell’apostolo Paolo: «Pregate
ininterrottamente» (1 Tes 5,17); «In ogni occasione, pregate con ogni sorta di
preghiere e di suppliche nello Spirito» (Ef 6,18); o anche sulla parabola della
vedova importuna che Gesù racconta per spiegare la «necessità di pregare
sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1), e sulla sua parola d’ordine: «Vegliate
e pregate in ogni momento» (Lc 21,36). Chiediamo al Signore che benedica fin
dai primi passi con un’abbondante effusione dello Spirito il cammino che
percorreremo insieme in quest’anno e che ci faccia crescere nel suo amore.
Dal
primo libro dei Re (1 Re 19, 7-13)
«L’angelo del Signore toccò Elia e gli
disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò,
mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e
quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. Là entrò in una caverna per passarvi
la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini:
«Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore,
Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno
demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi
la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco
che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti
e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo
il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto,
un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una
brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si
fermò all’ingresso della caverna».
Di questo brano, alcune cose possiamo
sottolineare che simboleggiano la nostra preghiera. Il Monte Oreb è il luogo
dell’incontro con Dio, Elia che vi sale è la tua anima che desidera salire per
incontrare il Signore. Se desideri Dio che ti muoverai verso lui. Elia, poi,
entra in una caverna oscura, simbolo del cuore, dentro il quale sei chiamato ad
entrare per vivere l’incontro con Dio. Il cuore, infatti, appare come un mondo
oscuro alla vista interiore, un luogo confuso in cui penetriamo a tentoni senza
vedere. E lì arriva l’invito: «fermati alla presenza del Signore». Il vento, il
terremoto, il fuoco, sono tutte quelle distrazioni interiori, irruente, che ti
tirano di qua e di là e non ti permettono di accorgerti della presenza del
Signore. Elia, alla fine, avverte il «sussurro di una brezza leggera» e in essa
la presenza del Signore. Il Signore parla con sussurri, non urla, non strepita,
non si impone, parla con voce soave ai cuori silenziosi che sanno ascoltare in
profondità.
2° INCONTRO
Dicevamo nel primo incontro che la
preghiera del cuore ha una finalità ben precisa che dovremo richiamarci in ogni
incontro; quella di condurci a vivere
continuamente alla presenza di Dio. Perché vogliamo imparare questa
preghiera? Perché in ogni momento e in ogni luogo della nostra vita, che stiamo
lavorando o che riposiamo, in casa o in altro luogo, da soli o in compagnia, sempre possiamo vivere in una relazione
continua con il Signore, senza mai staccarci da Lui, illuminati costantemente
dalla sua presenza e dalla sua parola.
Iniziamo questo secondo incontro
lasciandoci introdurre dalle pagine iniziali di un famoso testo cui abbiamo
accennato la volta scorsa. Nel primo racconto del Pellegrino russo il pellegrino racconta: «ventiquattro
settimane dopo la festa della Santissima Trinità entrai in una chiesa, durante
la liturgia, per pregare. Stavano leggendo, dalla prima lettera dell’apostolo
Paolo ai Tessalonicesi, il passo in cui è detto: “Pregate ininterrottamente” (1
Tes 5,17). Queste parole si incisero profondamente nel mio spirito, e comincia
a chiedermi come fosse possibile pregare senza sosta quando ciascuno è
necessariamente impegnato a lavorare per il proprio sostentamento». Così il
pellegrino iniziò il suo cammino in cerca di qualcuno che potesse offrire una
risposta alla sua domanda: come pregare incessantemente? Andò dapprima nelle
chiese dove si trovavano predicatori di grande fama. Assetato di parole
illuminanti, ascoltò molte prediche sulla preghiera, che cos’è la preghiera,
perché è indispensabile, quali sono i suoi frutti, ma nessuno spiegava come
vivere e praticare la preghiera ininterrotta; sul modo di arrivarci neppure un
accenno. Cercò allora un uomo sapiente ed esperto, un maestro spirituale ricco
di esperienza che gli spiegasse il mistero della preghiera e gli venne indicato
un uomo che in un villaggio viveva da tempo dedito completamente alla
preghiera. Si precipitò da quest’uomo e gli pose la domanda: «Spiegatemi che
cosa significhi ciò che ha detto l’apostolo: “Pregate ininterrottamente” e in
che modo ciò si possa realizzare. Ho tanto desiderio di capire, e non mi riesce
in nessun modo». Il signore restò in silenzio un momento, lo guardò fisso e
disse: «La preghiera interiore ininterrotta è la costante aspirazione dello
spirito umano verso Dio. Per riuscire in questo dolce esercizio occorre
chiedere più spesso al Signore che ci insegni a pregare ininterrottamente.
Prega di più e con maggior fervore: la preghiera stessa ti rivelerà in che modo
essa può diventare continua; ma per questo ci vuole tempo».
Anche noi, come il pellegrino russo,
desideriamo imparare la preghiera continua, quella che fluisce dal nostro cuore
incessantemente. Ma per imparare la Preghiera di Gesù dobbiamo anzitutto
ritrovare il nostro cuore, il cuore così
come lo intende la Bibbia e non secondo l’accezione che gli viene data
nell’uso corrente, in cui il “cuore” è ridotto alla sfera romantica, come sede
dei sentimenti e delle emozioni. Dobbiamo riappropriarci del significato cristiano del termine cuore,
che la Bibbia descrive come la fonte di tutte le energie fisiche, emozionali,
intellettuali, volitive, morali e religiose della persona. L’uomo della
Bibbia pensa con il cuore; è il cuore che prende decisioni; il cuore è la sede
dell’amore; nel cuore ha sede anche quel tipo di conoscenza che è la coscienza;
il cuore percepisce una gamma variopinta di sentimenti che lo attraversano. In
sostanza, il cuore indica quel nucleo
che racchiude la totalità della vita interiore e che abbraccia tutte le facoltà
e le attività dell’uomo: il cuore conosce, decide, sente, ricorda, in esso
si vive la relazione con Dio. Il cuore è
«l’organo dell’insieme» della persona, il centro vitale dell’uomo. Il cuore
decide la diversa personalità dei soggetti: c’è l’uomo dal cuore docile, dal
cuore indurito, indolente, incostante, ribelle, doppio, il cuore retto, puro,
saggio, sapiente. Conoscere una persona è possibile solo a partire
dall’interno, se si conosce il suo cuore. Per questo il Signore dice: «Io non
guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il
cuore».
Non vi è nella persona un organo più
centrale e assoluto rispetto al cuore. Ciò
che il direttore d’orchestra rappresenta per gli strumentisti, il cuore lo è
per la direzione delle facoltà umane. Perciò, per usare le parola di un
grande conoscitore della preghiera del cuore, Teofane il Recluso, «se
il cuore è al centro della persona umana, allora è attraverso il cuore che
l’uomo entra in relazione con tutto ciò che esiste». Anche nella preghiera,
quando è lì col suo Signore, l’uomo è lì “con tutto il cuore”. Ed è nel cuore che riceve la visita della
Spirito Santo perché «soltanto l’uomo nella sua interezza può ricevere la
grazia, e non questa o quella parte del composto umano. Siamo stati creati per
essere uniti a Dio con tutto il nostro essere, di cui il cuore è il centro.
Dagli abissi delle sua profondità, il
cuore irrora la vita a ogni angolo dell’io umano: se il cuore è buono, tutto
l’uomo è nella benedizione; se il cuore è perverso, ogni sfumatura dell’uomo è
intaccata dal male. Per questo dice un altro grande padre spirituale Macario
l’Egiziano: «il cuore governa tutto l’organismo corporeo e regna su di
lui, e quando la grazia possiede i pascoli del cuore essa governa tutte le
membra e tutti i pensieri, perché è nel cuore che hanno sede l’intelletto e
tutti i pensieri dell’anima come pure tutti i suoi desideri; per suo tramite,
la grazia penetra in eguale misura tutte le membra del corpo».
Troppo spesso noi intendiamo la
preghiera come una realtà esterna a noi e ci sforziamo di suscitarla a partire
dalle parole, dalle idee, la cerchiamo al di sopra o attorno a noi. Finché cerchiamo di far nascere la
preghiera a partire dall’esterno non arriveremo mai a pregare veramente.
Prima o poi ognuno può arrivare a scoprire di avere in sé un cuore di
preghiera. La preghiera che vogliamo imparare in questi incontri è la Preghiera del cuore, cioè quella
preghiera che cerca la sua sorgente e le sue radici nel profondo del nostro
essere. Con la preghiera del cuore noi
cerchiamo Dio in persona e lo incontriamo nella profondità del cuore. Lì
dove la vita trinitaria giace sepolta sotto il peso di un cuore di pietra, la
preghiera del cuore, invocando il nome di Gesù, ribalta il macigno che chiude
la porta del cuore, ci apre la strada all’incontro con Dio nel nostro cuore
rinnovato, il “cuore di carne”, vivificato dallo Spirito di Dio. Magari accadrà
anche a noi quello che un monaco diceva: «Oggi ho l’impressione che già da anni
portavo la preghiera nel mio cuore senza saperlo. Era come una sorgente
ricoperta da una pietra. A un certo momento, Gesù ha spostato la pietra. Allora
la sorgente si è messa a sgorgare e da allora continua a sgorgare» (Andrè
Louf).
Dal Vangelo secondo Matteo (6,5-8)
Dal Vangelo secondo Matteo (6,5-8)
«Quando pregate, non siate simili agli
ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando
ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto
la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la
porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto,
ti ricompenserà».
È Gesù stesso che con queste sue parole
ci ammaestra: se vuoi pregare fuggi ogni apparenza e non preoccuparti di nessun
altro sguardo se non di quello di Dio. Non conta quello che gli altri possono
vedere dall’esterno di te, conta quello che Dio vede dentro di te, nel tuo
cuore, la preghiera sincera che sgorga dalla tua anima e sale a Dio.
Gregorio il Sinaita, che nel basso
medioevo introdusse la pratica della preghiera di Gesù sul Monte Athos, così
commentava la parola che abbiamo ascoltato: «camera dell’anima è il corpo;
nostre porte sono i cinque sensi; l’anima entra nella sua camera quando la
mente non si aggira più qua e là tra le cose del mondo, ma si trova nel nostro
cuore, e i nostri sensi si chiudono e restano serrati quando non li lasciamo
aderire alle cose sensibili e visibili. Dio che conosce le cose segrete vede la
tua preghiera interiore e la ricompensa. Poiché questa è la vera e perfetta
preghiera, questa riempie l’anima dei doni dello Spirito come l’unguento
profumato che, quanto più lo chiudi in un vaso tanto più lo riempie del suo
profumo: così è anche per la preghiera, quanto più la serri entro il tuo cuore,
tanto più lo riempi della grazia divina». La preghiera riempie il tuo cuore
della grazia di Dio, lo rende un vaso profumato, un giardino irrigato, una
sorgente di acque limpide. Per questo, nel libro dei Proverbi è scritto: «Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa
poiché da esso provengono le sorgenti della vita» (Pr 4,23). Custodire il cuore
significa prendersi cura della propria anima e fare in modo che essa sia sempre
più unita a Dio.
3° INCONTRO
3° INCONTRO
Nell’ultimo incontro avevamo lasciato
il pellegrino russo che, dopo aver ascoltato durante un liturgia il passo in
cui è detto: “Pregate ininterrottamente” (1 Tes 5,17) ne era stato colpito a
tal punto da mettersi in cammino alla ricerca di chi gli spiegasse come poter
vivere questa parola. Egli aveva incontrato un maestro spirituale che gli aveva
rivelato che «la preghiera interiore ininterrotta è la costante aspirazione
dello spirito umano verso Dio». Congedato da questo sapiente, si era rimesso in
cammino finché lungo la strada maestra non incontra un vecchietto che aveva
l’aspetto di un religioso e al quale rivela il motivo del suo peregrinare:
scoprire come si può pregare sempre, ininterrottamente. Interrogativo al quale
finora nessuno aveva saputo dare risposta. L’anziano religioso gli disse:
«Ringrazia Dio, amato fratello. Ti è stato concesso di capire che la preghiera
ininterrotta si trova nella povertà di spirito e nell’esperienza di un cuore
semplice. Molte buone opere sono richieste al cristiano, ma quella di pregare
deve essere la prima, perché senza la preghiera non si può compiere
nessun’altra buona azione. Senza una frequente preghiera non potrai trovare la
via che conduce al Signore, conoscere la verità, crocifiggere la carne con le
sue passioni e i suoi desideri, essere illuminato nel cuore dalla luce di
Cristo e unito a Dio nella salvezza. Dico “costante” perché la perfezione e la
rettitudine della preghiera non dipendono da noi. A noi spetta solo di pregare
spesso, di pregare sempre, come mezzo per raggiungere la purezza della
preghiera che è la madre di ogni benedizione spirituale».
La preghiera è la fonte di ogni
benedizione e nella vita cristiana ad essa va dato il primo posto, perché dare
il primo posto alla preghiera significa dare a Dio il primo posto nella propria
vita. E la preghiera rinnova l’uomo a partire dal suo cuore. San Pietro, nella
sua prima lettera, ha un breve passaggio che, per la preghiera del cuore è una
vera pietra miliare. Così si esprime: «Cercate di adornare l’uomo interiore
nascosto nel cuore, nell’incorrotta purezza di un’anima piena di mitezza e di
pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio» (1 Pt 3,4). C’è dentro il nostro
cuore, come nascosto nelle sue parti più intime e profonde, un uomo interiore,
come una cripta è la parte più sotterranea e, a prima vista, invisibile di una
chiesa. E solo chi vive in profondità, oltre i livelli più superficiali della
vita, riesce ad entrare in questa dimensione, che è una dimensione prettamente
spirituale. Un monaco dei nostri tempi nota che: «molta gente non conosce il
proprio cuore, il proprio essere interiore. Questa gente conduce una vita
completamente esteriore: si identificano con la loro forza o con l’aspetto
fisico, con i loro successi, con il loro profilo psicologico, ecc. Dobbiamo
invece scoprire il nostro essere più profondo e identificarci con quello, cioè
essere uno con il Signore Gesù, essere uno col Figlio amato di Dio. È lo
Spirito Santo che ci dimostra e ci manifesta quello che abbiamo di più
profondo, che ci fa vedere la realtà del nostro essere interiore». Dice
l’apostolo Paolo: «Lo Spirito infatti
conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi infatti conosce i
segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i
segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi
non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere
ciò che Dio ci ha donato» (1 Cor 2, 9-14).
«Un baratro è l’uomo e il suo cuore
un abisso» proclama il salmo 64: nel cuore umano vi è una profondità che tocca
il mistero di Dio. Diceva il mistico Meister Eckhart: «Dio è nascosto nel fondo
dell’anima, là dove il fondo di Dio e il fondo dell’anima non sono che un unico
e medesimo fondo». A questi livelli di profondità l’uomo sente la chiamata a
partecipare alla vita divina. Ma fino a che non si immerge nella profondità del
suo essere non riuscirà ad entrare nelle profondità di Dio. Finché rimane esterno
al suo centro è fuori dal luogo in cui Dio gli è vicinissimo. C’è un mistero
che ci abita, la presenza di Dio al fondo di noi stessi. «Non sapete che siete
tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 4,16).
La preghiera del cuore ci risveglia e
ci conduce ad ancorarci a queste profondità, ancora nascoste, per vivere alla
presenza del Signore. «Dio ha messo nell’uomo il suo dono più grande: l’immagine di Dio. Ma questo dono, questa
perla preziosa, si nasconde negli strati più profondi dell’anima: chiuso in una
rozza conchiglia fangosa. Se Dio non avesse nascosto il suo dono, le forze del
male avrebbero potuto contaminarlo, ora esso si dà solo nelle mani di colui che
è in grado di vederlo e lo vede solo colui che ha perseverato nella sua ricerca»
(Florenskij).
Il cuore umano è la sede dello
Spirito di Cristo. In esso possiamo vivere un contatto reale con l’umanità di
Gesù Risorto. «Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1 Cor
6,17). Il discorso sul cuore non è completo finché non lo poniamo nel suo
rapporto naturale con lo Spirito Santo. Dice Teofane il Recluso che «se il
cuore e lo Spirito Santo sono divisi tra di loro, l’uomo non è più buono a
niente». La Scrittura presenta il cuore come il luogo in cui è infuso lo
Spirito del Signore: «Dio stesso ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la
caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori» (2 Cor 1,21-22). Lo Spirito si
unisce e trasforma tutta la realtà umana: la ragione, la volontà, i sentimenti
e anche il corpo. Poiché vi abita lo Spirito di Cristo, il cuore è l’organo
religioso per eccellenza. «Col cuore si crede» (Rm 10,10) dice san Paolo. Il
cuore è credente nel senso che la conoscenza dei misteri della fede si
dischiude soltanto a colui che si apre a Dio con tutto il suo essere. Per
questo Blaise Pascal diceva che «conosciamo la verità non soltanto con la
ragione ma anche con il cuore. Ecco cos’è la fede: Dio sensibile al cuore». Il
cuore conosce amando: conoscenza e carità sono in esso legate da un legame
inscindibile. Posso pensare e giungere a conoscere bene una realtà solo quando
la amo e mi apro ad essa con una simpatia del cuore. Così, non si può conoscere
Dio per la sola via della riflessione intellettuale, staccata dall’amore. Una
conoscenza di Dio che non è mossa dalla carità non giunge lontano. Per questo
Diadoco di Fotica afferma che «non vi è nulla di più povero di un pensiero che
indaghi sulle cose divine ponendosi al di fuori di Dio». Solo quando il cuore è
mosso dallo Spirito d’amore può davvero penetrare e conoscere il mistero di
Dio, non tanto come una serie di verità che d’improvviso gli si fanno chiare,
ma come una relazione d’amore che finalmente illumina ogni cosa.
Dal
Vangelo secondo Matteo (21, 18-22)
«La mattina dopo, mentre rientrava in
città, ebbe fame. Vedendo un albero di fichi lungo la strada, gli si avvicinò,
ma non vi trovò altro che foglie, e gli disse: «Mai più in eterno nasca un
frutto da te!». E subito il fico seccò. Vedendo ciò, i discepoli rimasero stupiti
e dissero: «Come mai l’albero di fichi è seccato in un istante?». Rispose loro Gesù:
«In verità io vi dico: se avrete fede e non dubiterete, non solo potrete fare
ciò che ho fatto a quest’albero, ma, anche se direte a questo monte: “Lèvati e
gèttati nel mare”, ciò avverrà. E tutto quello che chiederete con fede nella
preghiera, lo otterrete».
Questo passo del Vangelo ci introduce ad
un insegnamento di Gesù sul potere della preghiera fatta con fede. A questo
vuole richiamare il gesto simbolico della pianta di fico che si secca
all’istante. «Se avrete fede e non dubiterete» ci dice Gesù. Egli chiede prima
di tutto la fede. A chiedere siamo capaci, ma è a chiedere con fede che non
siamo capaci. Egli ci insegna che la risposta di Dio è sicura quando c’è la
preghiera piena di fede. È la fede la chiave della preghiera. Con la fede ogni
dubbio viene dissolto in un abbandono fiducioso nelle mani di Dio. Per chiedere
con fede non basta dire delle parole, non bastano pochi minuti. Per chiedere
con fede ci vuole un’umiltà profonda e tutta un’intimità di relazione da vivere
con Dio. Quando il cuore è veramente coinvolto in ciò che chiede, quando le
parole della preghiera sono davvero una risonanza del cuore, quando il centro
della nostra attenzione non è più il nostro problema ma Dio, allora la nostra è
una preghiera fatta con fede. E come dice altrove Gesù: «Tutto quello che
domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo già ottenuto e vi sarà
accordato» (Mc 11,24). Abbiamo bisogno di rinvigorire la nostra preghiera con
una potente iniezione di fede. Chiediamo al Signore il dono della fede per
poterlo pregare con piena fiducia e presentiamo a lui nel silenzio le nostre
preghiere personali.
4° INCONTRO
5° INCONTRO
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Nell’ultimo incontro avevamo lasciato
il pellegrino russo che, incontrato un anziano religioso, aveva ricevuto da lui
l’esortazione a pregare spesso, in maniera costante, poiché la preghiera è la
prima e più importante opera del cristiano. La purezza della preghiera, avevo
poi affermato l’anziano, è un dono di Dio. Davvero, come affermava un padre
spirituale «la preghiera è un dono che
Dio fa a chi prega». Così conversando, senza quasi accorgersene, i due
erano giunti all’eremo dell’anziano. Non volendo separarsi da lui, poiché era
un saggio che davvero conosceva la preghiera per esperienza e non come studio,
gli chiese di rimanere con lui e di spiegargli che cosa fosse la preghiera
continua e interiore e come poter apprenderla. L’anziano accolse la sua richiesta,
lo invitò nella sua cella e gli disse: «L’ininterrotta
preghiera di Gesù è l’invocazione continua e senza sosta del divino nome di
Gesù Cristo con le labbra, con la mente e con il cuore, nella visione mentale
della sua presenza costante e nell’invocazione della sua pietà, durante ogni
occupazione, in ogni luogo, in ogni tempo, anche nel sonno. La preghiera si
compone di queste parole: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di
me!”. E chi si abituerà a questa invocazione proverà una tale consolazione e un
tal bisogno di pronunciare di continuo la preghiera, che non potrà più vivere
senza di essa, ed essa fluirà spontaneamente dentro di lui».
L’invocazione continua del nome di
Gesù porta a una profondità crescente: si parte dalle labbra (la preghiera
vocale), si passa per la mente (prendere coscienza del senso delle parole con
cui si prega) e si arriva infine al cuore, dove l’uomo intero e non una sua
sola parte è coinvolto nella preghiera. La
preghiera vera sgorga dalle profondità del cuore. Perché? Perché in quelle
profondità essa scopre una sorgente divina e questa sorgente sono le acque del
Battesimo. Per poter davvero vivere la preghiera cristiana dobbiamo
immergerci in questa profondità, arrivare al centro di noi stessi e attingere a
questa sorgente che abita in noi. Senza di questo, la preghiera rimarrà uno
sforzo che non porta a nulla, una fatica senza gusto, un impegno incapace di
cambiare la vita.
Come è accaduto allora che abbiamo
perso la consapevolezza di questo dono divino che abbiamo ricevuto e che
ciascuno di noi custodisce in se stesso? Giovanni Crisostomo, un grande padre
della Chiesa, dice che quando l’uomo riceve il battesimo è illuminato da quella
grazia, essa però si dilegua poi nell’inconscio. Questo dono inestimabile, la
vita di Cristo in noi, viene disperso perché non ne abbiamo coscienza e perciò
non ne abbiamo neanche cura. Rimane come sepolto sotto un accumulo di altre
cose che riempiono la vita e diventa perciò inattingibile per l’uomo, impegnato
com’è in mille altre cose (magari anche religiose!), il quale finisce per
dimenticarsene, come se non l’avesse mai ricevuto. Così molte volte la vita cristiana è contrassegnata da
questa dimenticanza perenne del dono ricevuto. Per un cristiano perdere la
coscienza del battesimo è come vivere in coma. La preghiera cristiana
invece scaturisce proprio da questa sorgente battesimale. Dobbiamo perciò
riprendere coscienza della grazia battesimale che ci abita: è qui che è celata
la sorgente della preghiera. Tutta
l’opera del cristiano consiste nell’accogliere e far riemergere nella propria
coscienza e nella propria vita quella grazia battesimale che è in qualche modo
sepolta nelle profondità della sua esistenza corporea, un po’ come la
sorgente nascosta che alimenta il getto d’acqua della fontana. Vi è dentro di
noi un’inestinguibile principio di santità, un germe divino seminato negli
abissi della nostra persona, una vita divina che è dono del battesimo. Per mezzo di esso, infatti,
siamo innestati nel corpo di Cristo e la vita di Cristo, che chiamiamo “grazia”,
ci viene partecipata per mezzo dello Spirito. Come dice san Paolo: «chi si
unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1 Cor 6,17). L’invocazione
del nome di Gesù riporta senza sosta la nostra anima nel suo interno, nell’abisso
del cuore dove vive il Signore. Si tratta di riscoprire in noi la presenza di
Dio. In questo senso, non ci dobbiamo “formare” (cioè darci una forma) alla
preghiera, non dobbiamo riprodurre un modello e neanche imparare una buona
tecnica, ma permettere alla preghiera che nasce dalla vita battesimale di
venire alla luce. Questo significa che non si può insegnare a qualcuno a
pregare così come non gli si può insegnare a gioire, ad amare o a piangere. La
preghiera procede da un istinto vitale che è già in noi, non c’è da costruirlo,
bisogna farlo emergere, lasciarlo vivere.
Osserviamo infine più da vicino
questo movimento di ritorno al centro dell’essere umano per scoprire il cuore
di preghiera. È il movimento con cui ritorniamo al centro di noi stessi per ritrovarvi
Dio presente ed operante. Non consiste in una semplice introspezione ma nell’incontrare Dio che è all’opera dentro
di noi. Per descrivere questo cammino di ritorno al cuore, l’Occidente
parla di raccoglimento, di silenzio interiore, di verginità del cuore.
L’Oriente parla di hesychia, una
condizione di riposo, di pace e di tranquillità, che si vive all’inizio e al
termine di una vita di preghiera. È uno stato di pienezza, di pace, di silenzio
dell’unione con Dio. Non è il benessere
psicofisico che può venire da una tecnica di rilassamento ma la coscienza che
viene riempita dalla presenza amorosa di Dio. L’uomo è chiamato a
intraprendere un pellegrinaggio
interiore verso il luogo del cuore. Qui risuona la preghiera tipica della
preghiera del cuore: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”.
Questa preghiera non ha altro scopo che quello di attualizzare, rendere viva e
incessantemente operante la grazia battesimale, cioè il nostro essere innestati
nel corpo risorto di Gesù. A poco a poco la persona si unifica a partire dal
cuore, dove risiede l’energia divina. A forza di ripetere la preghiera di Gesù,
l’orante discende nelle profondità del proprio essere e il nome di Gesù libera
il dinamismo dello Spirito imprigionato in lui. La gloria del risorto può
quindi penetrare tutta la sua persona, spirito, anima e corpo e irradiarsi in
tutto il suo essere. È la
trasfigurazione della vita dell’uomo, il quale viene illuminato completamente
dalla presenza di Dio che abita in lui. L’uomo di preghiera vive perciò il
suo paradiso interiore perché si scopre unito a Dio, partecipa del suo amore e
può davvero compiere la sua vita nelle due azioni dell’amore: offrire e
ringraziare. Così lasciamo che accade per noi quanto afferma il Salmo 68: «Si
ravvivi il cuore di chi cerca il Signore», riprenda vita in Cristo e la vita
che Cristo dona è l’amore.
Dal
Vangelo secondo Matteo (6,19-21; 13,44-46)
«Non
accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove
ladri scassìnano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né
tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. Perché,
dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore». La parole del
Vangelo che abbiamo ascoltato sono forti e ti invitano a porti una domanda:
qual è il tesoro della tua vita? Quali sono i tuoi tesori? Cosa ha per te più
valore di ogni altra cosa? Queste sono domande fondamentali perché la risposta che
diamo ci condiziona tutta la vita. Da essa proviene la gerarchia delle tue
priorità e il comportamento concreto di ogni giorno. “Dov’è il tuo tesoro, là
sarà anche il tuo cuore» significa che l’attenzione, la preoccupazione e
l’impegno quotidiano della tua persona sarà orientato verso ciò che per te ha
più valore. Come l’ago della bussola tenderà inevitabilmente verso il nord,
così il cuore sarà proteso verso il suo tesoro. La parola di Gesù è radicale,
non ama i compromessi, e ci offre un’indicazione sapiente sulla quale faremmo
bene a riflettere per convertire il nostro cuore: ci sono tesori effimeri, che
si consumano e che possono essere rubati (le cose, la fama, i ruoli sociali) e
ce ne sono altri duraturi, che niente può consumare e nessuno può scippare. Questi
ultimi sono quelli da perseguire. Chi prega con fede può capire che il tesoro è
nel suo cuore, è il tesoro della presenza di Cristo che rinnova la vita, è
l’amore di Dio che illumina e vivifica di energie nuove l’anima dell’uomo. Ecco
il tesoro che dà valore a ogni altra cosa. Ciò che nasce dall’Amore di Cristo
non scompare ma acquista un valore eterno; niente di ciò che viviamo che
esprime questo amore viene cancellato né può essere rubato. Chi vive in Cristo, nel suo Amore, entra già in
una dimensione eterna. Per questo altrove Gesù dice: «chiunque vive e crede in
me, non morirà in eterno» (Gv 11,26).
L’ultima volta il pellegrino russo,
dopo aver camminato accanto a un anziano religioso ed essere stato accolto
nella sua cella, aveva ricevuto da lui un primo e importante ammaestramento
sulla preghiera continua, per raggiungere la quale – così gli era stato detto –
è necessario invocare senza sosta, in ogni tempo e in ogni luogo, il nome di
Gesù, e farlo con le labbra, con la mente e con il cuore. Dinanzi a questo
insegnamento, il pellegrino esclama: «Ho capito, padre mio! Per amore di Dio,
ora insegnatemi come arrivarci!». E il maestro spirituale in risposta aprì un
libro, La filocalia, vi cercò il
trattato di San Simeone il Nuovo Teologo e lesse: «Siedi nel silenzio e nella solitudine. Inclina il capo, chiudi gli
occhi; respira dolcemente, e guarda con l’immaginazione dentro il tuo cuore.
Dirigi la tua mente, cioè il tuo pensiero, dalla testa verso il cuore.
Scandisci, respirando: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”,
a fior di labbra o anche soltanto con la mente. Sforzati di escludere ogni
pensiero estraneo: abbi una serena pazienza e ripeti il più spesso possibile
questo esercizio». Quanto il maestro legge al pellegrino russo sono gli
ingredienti essenziali della preghiera del cuore: il silenzio, la solitudine,
la perseveranza, il cammino interiore verso il proprio cuore e lì, nel profondo
di se stessi, l’invocazione del nome di Gesù. San Francesco, pur in tutt’altro
contesto storico e culturale, e con forme sue proprie, viveva anch’egli questa
profonda dimensione di preghiera, tanto che i biografi scrivono che di lui: «Trascorreva tutto il suo tempo in santo
raccoglimento. Cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo
con lo spirito, ma con le singole membra al suo Dio. Spesso, senza muovere le
labbra, meditava a lungo dentro di sé e, concentrando all’interno le potenze
esteriori, si alzava con lo spirito al cielo. In tale modo dirigeva tutta la
mente e l’affetto a quell’unica cosa che chiedeva a Dio: non era tanto un uomo
che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente»
(FF 681-682).
Pregare è aprire il cuore a Dio, ma
per farlo occorre prima entrarvi. Ecco perché Gesù paragona il cuore alla
propria stanza in cui entrare (cf. Mt 6,6) e i mistici parlano del tempio
interiore, della casa interiore, dell’appartamento segreto. Nel profondo di
ogni uomo c’è questo luogo da cui attinge la sua vita. Per i mistici il
rapporto con Dio si vive in questa stanza interiore segreta che è il fondo
dell’anima. Si tratta di compiere un
pellegrinaggio interiore verso il luogo del cuore e questo percorso non è
semplice. Non è semplice perché siamo abituati a vivere alla superficie di
noi stessi, perché la velocità è nemica della profondità e la fretta con cui
viviamo le nostre giornate ci impedisce di avere tempo da dedicare alla nostra
interiorità. Ma non è semplice anche perché quando l’uomo inizia questo cammino
verso il suo interno, per ritornare al suo centro, scopre che la sua unità interiore è lacerata in mille
frammenti. Non appena l’uomo si ferma per stare con se stesso scopre che la
mente è come un fiume in piena, i pensieri e le immagini si succedono e si
accavallano senza sosta. La dispersione dei pensieri è il segno più eloquente
della disintegrazione del cuore. Teofane il Recluso usa delle immagini suggestive
per farci capire il gioco dei pensieri vaganti. Essi si «accavallano l’un
l’altro come zanzare che sciamano e le emozioni seguono i pensieri». È questa
una situazione dannosa per l’uomo perché egli si ritrova come smarrito e
disorientato, porta nel cuore una bussola impazzita il cui ago schizza a destra
e sinistra. Questa situazione è invece molto favorevole al nemico dell’uomo,
che si comporta come «un abile mercante capace di allettare il nostro occhio
spirituale presentandogli una merce dopo l’altra». L’uomo che ha perso il cuore
non ha più il suo centro regolatore ed è «simile a un cavallo che pascola senza
padrone: chi vuole mi cavalca; appena quel primo mi ha cavalcato abbastanza e
mi lascia, subito si mette sopra di me un altro e fa lo stesso. Questo è il
vagabondare qua e là dei nostri pensieri; per mezzo di essi, il nemico cavalca
su di noi e fa lo stesso anche attraverso le molteplici attività e le
molteplici occupazioni che portano a un incontrollabile smarrimento».
Chi pensa di combattere la sua
dispersione interiore a colpi di volontà e con un autodisciplina dei pensieri,
ha perso la battaglia in partenza. Una mente disgregata non è in grado di
ricomporre da se stessa la sua unità, nonostante questo sia ciò che desidera.
La preghiera del cuore ci mette su un altro cammino, più semplice, e che può
ricondurre l’uomo alla sua unità interiore riportandolo al centro del suo
essere. Attraverso la preghiera del cuore lo spirito si libera dall’agitazione
del mondo esterno, supera la molteplicità e la dispersione, si purifica dal
movimento disordinato dei pensieri, delle immagini, delle rappresentazioni,
delle idee; si interiorizza e si unifica. Nel profondo del cuore, lo spirito e
il corpo ritrovano la loro unità originaria, l’essere umano recupera la sua
semplicità. La preghiera del cuore non è una preghiera complicata,
intellettuale, ma non è neanche una preghiera sentimentalistica che va alla
ricerca di pie emozioni. Essa è una preghiera teologica e ricompatta la coscienza dell’uomo intorno a un unico e
preciso centro: la presenza di Dio in lui. Ecco la sorpresa a cui conduce la
preghiera del cuore: l’uomo, andando al fondo di se stesso, scopre di non
essere abbandonato a una solitudine interiore radicale, ma riconosce di essere abitato
da Dio, si scopre “tempio di Dio”, sperimenta che alla radice di se stesso egli
si incontra con il mistero di Dio che è in lui. «Dimorate in me e io in voi»
dice Gesù nell’immagine della vite e dei tralci. Questo la preghiera ci rivela:
Cristo abita nell’anima, Dio abita in noi. Come dice un monaco dei nostri
tempi: «Più di qualsiasi altra preghiera, la Preghiera di Gesù, ha come scopo
di metterci alla presenza di Dio senza alcun altro pensiero, eccetto la
coscienza del prodigio di trovarci, ora, qui, con Dio e Lui con noi» (A.
Bloom). A questo mira la ripetizione continua della formula: «Signore Gesù
Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». Si tratta di invocare il Signore Gesù
con un desiderio fervente e in una paziente attesa, lasciando da parte ogni
pensiero. Non dobbiamo preoccuparci del numero delle preghiere da recitare,
della quantità, ma solo che la nostra preghiera scaturisca del cuore, viva,
come acqua di sorgente.
Dal
Vangelo secondo Giovanni (15,1-7)
«Io
sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta
frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più
frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete
in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non
rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi
i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me
non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e
secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me
e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto».
L’immagine che Gesù ci offre in questo
brano del Vangelo di Giovanni è di un’importanza capitale nella vita spirituale
e può avere un impatto straordinario nella nostra vita. Pensiamo attentamente a
quanto rivela: Cristo è la vite, io sono il tralcio unito alla vite. In me
scorre la linfa della vite, la sua vita passa nella mia vita, e questo linfa è
lo Spirito d’Amore che Cristo ci dona. Più vivo unito a questa vite, più
l’amore di Cristo mi invade e passa in me. E la verifica sicura che vivo unito
a Cristo sono i frutti, cioè l’amore concreto agli altri che la mia vita
manifesta. Invece, il tralcio che si stacca dalla vite si priva della linfa,
rinsecchisce e non è capace di portare alcun frutto. Rimane isolato, chiuso, e
non serve ad altro che ad essere gettato via. Nel tempo di silenzio che ora vivremo,
ricordiamo a noi stessi che il Signore abita nel nostro cuore, prendiamo
coscienza della sua presenza in noi, pensiamoci come il tralcio attaccato alla
vite, lasciamo che la linfa del suo amore scorra in noi. Ricordiamo le parole
di Gesù: «Rimanete in me e io in voi».
Scuola di preghiera
2017-2018
Le beatitudini
1° INCONTRO: Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli
L’anno passato abbiamo dedicato le sette tappe annuali della nostra
scuola di preghiera al Padre nostro, riflettendo ogni serata su un’invocazione.
Quest’anno la nostra preghiera sarà alimentata dalle Beatitudini, che possiamo chiamare anche “le vie della felicità”. Diceva il grande filosofo dell’antica Roma
Seneca: «tutti vogliono vivere felici ma
quando si tratta di veder chiaro cos’è che rende felice la vita, sono avvolti
dall’oscurità». Ebbene le beatitudini sono una lampada in questo
cammino verso la felicità, anche se il cammino che tracciano non è quello che
pensiamo noi.
Nelle Scritture leggiamo spesso delle affermazioni che
proclamano la beatitudine, la
felicità riservata al credente che vive determinate situazioni e assume
comportamenti precisi. Solo per citarne una: «Beato chi trova gioia nell’insegnamento del Signore e lo medita giorno
e notte» (Sal 1,2). Anche Gesù, in continuità con i Profeti e i Salmi,
nella sua predicazione ha proclamato alcune beatitudini. Ne abbiamo numerose
tracce nei vangeli: «Beato colui che non
trova in me motivo di scandalo» (Mt 11,6); «Beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la osservano» (Lc
11,28); «Beati quei servi che il Signore
alla sua venuta troverà vigilanti» (Lc 12,37). Vi è però un brano,
riportato in due differenti versioni, una nel Vangelo di Luca e l’altra in
quello di Matteo, che è conosciuto come “le
beatitudini” per eccellenza ed è come un bellissimo e imponente portale posto all’inizio del grande discorso
della Montagna. Secondo Matteo, infatti, Gesù per pronunciare le
beatitudini salì sulla montagna e
anche noi idealmente faremo lo stesso cammino per meditarle. Ogni meditazione
sarà come avanzare di un gradino, nel tentativo di salire a contemplare quella
bellezza divina che potrà far risplendere il nostro volto. È bene all’inizio di
questo cammino riascoltare con cuore aperto le parole stesse del Vangelo:
Vedendo
le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi
discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati
i poveri in spirito,
perché
di essi è il regno dei cieli.
Beati
quelli che sono nel pianto,
perché
saranno consolati.
Beati
i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché
saranno saziati.
Beati
i misericordiosi,
perché
troveranno misericordia.
Beati
i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati
gli operatori di pace,
perché
saranno chiamati figli di Dio.
Beati
i perseguitati per la giustizia,
perché
di essi è il regno dei cieli.
Beati
voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta
di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è
la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che
furono prima di voi.
Perché fermarci a riflettere sulle Beatitudini, al punto da farne un
combustibile per la nostra preghiera? Perché
le Beatitudini dicono chi dobbiamo diventare e la strada da percorrere, che
tipo di persona il Signore mi chiama ad essere, quali sono i tratti evangelici
che vuole vedere in me. Esse sono la
forma che dobbiamo prendere, la figura del “figlio di Dio” nascosta dentro la
massa grezza della mia persona,
la trasfigurazione che la fede vuole operare rinnovando ognuno di noi.
Cosa sono le Beatitudini? Lo diciamo in maniera sintetica in tre punti:
1 – Esse sono un
ritratto di Gesù Cristo, una biografia interiore di Gesù, una descrizione
del suo cuore e della sua condizione. Gesù è l’uomo delle beatitudini: Egli,
che non ha dove posare il capo, è il vero povero; egli, che può dire di sé:
venite a me perché sono mite e umile di cuore, è il vero mite; è il vero puro
di cuore perché contempla senza interruzione il volto del Padre, egli è
misericordioso, è l’operatore di pace, è colui che soffre per amore di Dio. Nelle beatitudini si manifesta il mistero
di Cristo stesso e di conseguenza il cammino di ogni discepolo che sceglie di
seguirlo. Le beatitudini sono gli atteggiamenti vissuti in pienezza da Gesù
Cristo e, come tali, devono diventare lo stile
di vita dei suoi discepoli. E qui entra in gioco il secondo punto.
2 – Come le beatitudini mi chiedono di seguire il Signore? Le beatitudini sono dei paradossi! Forse
siamo così abituati ad ascoltarle che non cogliamo più la loro dimensione di
“scandalo”! Esse parlano con il “linguaggio della croce” che confonde la
saggezza umana perché usa un alfabeto ad essa incomprensibile. Dovremmo
chiederci invece: com’è possibile essere
poveri e felici? Miti e felici? Piangere ed essere felici? Aver fame di
giustizia ed essere felici? Perseguitati e felici? Le beatitudini sono
scandalose! I criteri mondani vengono
capovolti. Si parla di felicità ma guardando alla realtà da un’altra
prospettiva, ovvero dal punto di vista
della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo.
Le beatitudini esprimono quel rovesciamento dei valori che Gesù incarna e
inaugura in sé e per il mondo. Le beatitudini diventano allora un interrogativo
per noi: sto guardando il mondo dal
verso giusto? E sto vivendo secondo i valori di Dio? So cogliere quello che
vale agli occhi di Dio o do troppa importanza a cose che non lo meritano?
3 - Le beatitudini sono una
caparra, un antipasto, o per
dirla con linguaggio più sofisticato e teologico, sono promesse escatologiche;
questa espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che
annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o nell’aldilà. Se l’uomo comincia a guardare e a vivere a
partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo criteri
nuovi e allora un po’ di quella gioia e pienezza (echaton) che ci attende in cielo si rende presente già adesso.
Sì, le beatitudini sono un anticipo di cielo, sono la bellezza, la bontà e la
gioia di Dio che già oggi posso vivere.
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» è la
prima Beatitudine. Essa ci chiama a mettere insieme la povertà come condizione
materiale e come atteggiamento spirituale. Non è solo questione di povertà come
carenza di cose o solo di povertà come disposizione del cuore. Nessuna di
queste due forme di povertà, presa da sola, coglie pienamente il senso della
beatitudine. Possiamo dire che la povertà materiale nasconde in sé una perla
spirituale. Ricordiamo qui due moniti di Gesù che ci mettono sull’attenti: «è
più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel
regno di Dio» (Mt 19,24) e ancora «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt
6,24). Se sono ricco mi sento sicuro, potente, superbo, credo di poter contare
solo su me stesso e di non aver bisogno di nessuno, anzi che tutto posso
comprare perché tutto a un prezzo. Da povero, invece, non vivo
l’autosufficienza, non posso poggiare sulle mie forze e far leva su me stesso;
sono costretto a rivolgermi a un altro, deve aprirmi, umiliarmi e chiedere. Nei
poveri Dio non apprezza tanto ciò che hanno, quanto ciò che non hanno:
autosufficienza, chiusura, pretesa di salvarsi da soli. Per questo dice san
Giacomo: «Dio ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede»
(Gc 2,5). La povertà che ci è richiesta è quella del cuore, dell’umile, di chi
sa stare davanti a Dio con le mani vuote e protese verso di lui e che poi si fa
realtà concreta in uno stile di vita sobrio, essenziale e capace di
condivisione con l’altro. Fermiamoci nel silenzio a pregare: “Signore, prendi
il mio cuore ricco, pieno, orgoglioso, chiuso a te e insensibile ai bisogni
degli altri, e ricordami che sono solo un povero, che tutto ciò che ho è dono
tuo da condividere con gli altri e restituire a te. Ti ringrazio, apri il mio
cuore a te e ai fratelli”.
In questa seconda meditazione, ci lasciamo aiutare dalle parole stesse
di san Francesco, il quale ha dedicato una sua ammonizione (la numero XIV)
proprio alla povertà di spirito. Così egli scrive: «Ci sono molti che,
applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte astinenze e
mortificazioni corporali, ma per una sola parola che sembri ingiuria verso la
loro persona, o per qualche cosa che venga loro tolta, scandalizzati, subito si
irritano. Questi non sono poveri in spirito, poiché chi è veramente povero in
spirito odia se stesso e ama quelli che lo percuotono sulla guancia». Francesco
coglie nella povertà in spirito l’invito a una spogliazione totale di sé.
Quello che aveva fatto con gesto eclatante in piazza ad Assisi rimanendo nudo
davanti al padre e a tutto il popolo, diventa l’icona perfetta
dell’atteggiamento interiore di povertà che ha vissuto in tutta la sua vita, e
diventa un interrogativo per noi. Chi può dirsi veramente povero? Chi sa
spogliarsi di se stesso! Non basta pregare molto, non è sufficiente riempirsi
di servizi e occupazioni, non basta neanche fare molti sacrifici e rinunce. Si
può fare tanto, tantissimo, fare tutte cose buone, religiose e sante, ed essere
poco evangelici perché molto pieni di sé. Ecco la cartina tornasole che
Francesco ti offre per verificarti: se ti viene detta una parola di traverso,
se vieni messo in secondo piano o ti viene tolto un incarico, il tuo cuore
rimane in pace o subito spunta in esso rabbia, ribellione e risentimento? Se
basta una sola parola pungente per farti irritare contro chi ti offende, sei
ancora di quelli che hanno posto il loro tesoro in se stessi, sei ancora pieno
di te. Non sei povero in spirito perché «Chi è veramente povero in spirito odia
se stesso e ama quelli che lo percuotono sulla guancia» dice Francesco. Preghiamo:
“Signore liberami da me stesso, donami un cuore semplice e povero, un cuore che
non si attacchi, perché sappia amare senza possedere, servire senza avere,
perdere senza guadagnare nulla, se non il tuo amore e la consolazione di amare
come ami tu”.
2° INCONTRO: Beati quelli che sono nel pianto perché saranno consolati
«Beati quelli che sono nel
pianto (“gli afflitti” nella vecchia traduzione), perché saranno consolati» è la seconda beatitudine, su cui ci
soffermeremo stasera. Dicevamo già nel nostro primo incontro che le Beatitudini
hanno un aspetto paradossale, scandaloso, che non dobbiamo perdere. Non siamo
noi a dover addomesticare la Parola di Dio, ma è la Parola che deve
addomesticare noi. Chiediamoci: come si
può essere al tempo stesso beati e afflitti, beati e nel pianto? Ci sono due tipi di afflizione: 1) l’afflizione
negativa, quella che
logora e svuota l’uomo dall’interno facendogli perdere la speranza, facendo in
modo che non si creda più nell’amore, nel bene, che diventi diffidente e disilluso
verso tutto e tutti; 2) ma c’è anche un’afflizione positiva, che deriva
dalla scossa provocata dalla verità e porta l’uomo alla conversione del cuore e
alla resistenza di fronte al male. Questa afflizione è benefica, è un dolore
che risveglia e risana l’uomo, gli ridona la forza di sperare e di amare di
nuovo. Un esempio del primo tipo di
afflizione è Giuda che, dopo il suo tradimento, non osa più sperare e si
impicca in preda alla disperazione. Al
secondo genere, appartiene l’afflizione di Pietro che, dopo aver rinnegato
tre volte Gesù, colpito dallo sguardo del Signore, scoppia in lacrime
risanatrici: lacrime che solcano il terreno della sua anima. Ricomincia da capo
e diventa un uomo nuovo.
Di questo genere di afflizione positiva, che costituisce un potere
opposto alla signoria del male, troviamo una testimonianza nel libro del profeta Ezechiele (9,4). Sei uomini
vengono incaricati di punire Gerusalemme – la terra coperta di sangue, la città
piena di violenza. Ma prima un uomo vestito di lino deve disegnare un tau
(una specie di croce) sulla fronte di coloro che sospirano e
piangono per tutti gli abomini che vi si compiono e le persone segnate in quel
modo scampano al castigo. Sapete chi
sono queste persone? Sono quelle che non seguono il branco, che non si lasciano
coinvolgere con spirito gregario in un’ingiustizia divenuta normale, ma ne
soffrono. Anche se non sta in loro potere cambiare la situazione nel suo
insieme, oppongono tuttavia al dominio del male la resistenza passiva della
sofferenza – è l’afflizione che pone un limite al potere del male.
La tradizione ha trovato anche un’altra immagine di afflizione
risanatrice: Maria che sta sotto la
croce insieme con le altre donne. In un mondo di crudeltà e cinismo, anche
qui c’è un piccolo gruppetto di persone che restano fedeli: non possono
ribaltare la sventura, ma nel loro con-patire
si schierano dalla parte de condannato. Questa compassione fa pensare alla
stupenda parola di san Bernardo di Chiaravalle, nel suo Commento al Cantico dei
Cantici: «Impassibilis est Deus, sed non incompassibilis» - Dio non può
patire, ma può compatire. Sotto la croce di Gesù si comprende meglio la parola:
«Beati coloro che sono nel pianto, perché saranno consolati». Colui che non indurisce il cuore di fronte
al dolore, al bisogno dell’altro, che non apre l’anima al male, ma soffre sotto
il suo potere dando così ragione alla verità, a Dio, costui spalanca la
finestra del mondo per far entrare la luce. A questi afflitti è promessa la
grande consolazione. In questo senso, la seconda beatitudine, è in stretta
relazione con l’ottava: «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi
è il regno dei cieli». L’afflizione di
cui parla il Signore è il non conformismo col male, è n modo di opporsi a
quello che fanno tutti e che s’impone al singolo come modello di comportamento.
Il mondo non sopporta questo tipo di resistenza, esige che si partecipi, che ci
adegui, che ci si metta in riga. Questa
afflizione gli sembra una denuncia che si oppone allo stordimento delle
coscienze. E lo è. Per questo gli afflitti diventano dei perseguitati a
causa della giustizia.
«Giustizia» nel linguaggio dell’Antico Testamento è l’espressione della
fedeltà alla Torah, la legge di Dio, la sua parola rivelata in maniera
particolare nei dieci comandamenti. Nel Nuovo Testamento l’equivalente a questo
è la fede: il credente è il giusto che
percorre le vie di Dio, che segue la parola e l’esempio di Gesù e per questo ne
soffre; umiliazioni, beffe e sarcasmi, ridicolizzazione, indifferenza,
emarginazione sociale, avversioni e persecuzioni.
Eppure, agli afflitti viene promessa la consolazione, ai perseguitati
il regno di Dio; è la stessa promessa fatta ai poveri in spirito. Le due
promesse sono molto vicine: il regno di
Dio – stare nella protezione della potenza di Dio e del suo amore – questa è la
vera consolazione. E questa consolazione avrà la sua pienezza nell’aldilà:
solo allora la persona che soffre verrà davvero consolata, solo allora le sue
lacrime si esauriranno completamente, quando nessuna violenza potrà più
minacciare lei e le persone impotenti di questo mondo.
«Beati coloro che sono nel pianto». Non ogni pianto in quanto tale è
beato. Ci sono due grandi motivi per cui il pianto è detto beato. Primo motivo,
piangere su se stessi; secondo motivo, piangere sugli altri. Diceva infatti un
padre spirituale (Cromazio di Aquileia) «Beati coloro che si sforzano di
cancellare con lacrime abbondanti i peccati di cui si sono macchiati, oppure
coloro che non si stancano di espiare l’iniquità del proprio tempo e i delitti
di quelli che sbagliano». In
questa meditazione vediamo la prima forma di pianto, quella su se stessi. C’è
un’afflizione malsana che avviene quando sono deluso da me stesso. È un
dispiacere che nasce dallo scontento per aver mancato a un ideale di
autoperfezione che mi sono dato. L’io, tutto rinchiuso e incentrato in se
stesso, si rammarica perché non riesce ad essere come vorrebbe. Questo è un
dolore nocivo che genera sensi di colpa, e può giungere fino ad infliggersi
penitenze nel tentativo di ritornare a corrispondere all’ideale di noi stessi
che ci siamo fatti. È un dolore che abbatte, che deprime, che non fa nascere
nulla di nuovo. C’è, invece, un pianto benefico che è capace di rigenerare a
una vita nuova. Questo pianto affiora sul viso dell’uomo quando nel suo cuore
due cose si rendono presenti nello stesso momento, e quasi si toccano e si
intrecciano tra di loro: il male commesso di cui finalmente si prende coscienza
e il sentimento vivo dell’amore di Dio che abbraccia e perdona. Peccato e
perdono, dolore e amore, lacrime di dolore e lacrime di gioia. Lacrime che
portano in sé il dolore di un travaglio e fanno rinascere l’uomo, che
finalmente si scopre avvolto dall’amore di Dio, e sa finalmente esclamare:
«Quanto ci hai amato, o Padre buono, quanto ci hai amato!».
Nel silenzio, chiediamo al Signore la grazia di provare nel cuore
dolore e amore, il dolore per i nostri peccati, e l’amore suo che mi abbraccia
e mi salva.
Il secondo motivo del pianto è piangere sugli altri. Nel libro del
profeta Ezechiele il Signore ordina a un uomo vestito di lino: «Passa in mezzo alla città, in mezzo a
Gerusalemme, e segna un tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono
per tutti gli abomini che vi si compiono». Il Tau diventa il simbolo di coloro
che sono salvati, che non incombono nella punizione di Dio. Perché questi sono
salvati? Perché sono coloro che non si lasciano trascinare dalla corrente ma
soffrono per il male che vedono intorno a sé e per coloro che ne sono vittime.
Questa beatitudine sembra quasi dire: “Beati coloro che non sono indifferenti…
coloro che non sono assuefatti e il cui cuore sente ancora il dolore del male.
Questa afflizione diventa resistenza, matura come libertà dinanzi al male e
alle sue pressioni, anche quando questo conquista la maggioranza e chiede di
pagare di persona.
Ma gli afflitti sono beati anche perché sono capaci di consolare le
vittime del male. Il male semina dolore nella vita delle persone e il dolore
vissuto nella solitudine diventa disumano e insostenibile. Con-solare significa
allora essere con chi è solo con il suo dolore.
È, nel concreto, uno stare accanto, offrire la propria presenza, far
sentire la nostra mano nella mano dell’altro. Ecco allora qual è l’opera di
consolazione richiesta anche a ciascuno di noi; adoperarci affinché non
esistano più lacrime che nessuno consola, solitudini in cui nessuno si fa
compagno.
E, infine, beati sono coloro che si dispiacciono per il fatto che
l’Amore non è amato, che soffrono perché il Signore non riceve nel mondo che
indifferenza e avversione.
Chiediamo nel silenzio che il Signore prenda il nostro cuore di pietra
e ci doni un cuore di carne, capace di non assuefarsi al male e di essere
vicino a chi soffre.
3° INCONTRO: Beati i miti perché avranno in eredità la terra
«Beati i miti, perché avranno
in eredità la terra» è la
terza beatitudine pronunciata da Gesù. Questa affermazione è praticamente la
citazione del salmo 37: «I miti invece possederanno la terra».
Nella Bibbia greca la parola praeis (mansueti-miti) è la versione
del vocabolo ebraico anawim, con il quale venivano
definiti i poveri di Dio. La terza beatitudine si riallaccia così alla prima
(“beati i poveri in spirito…”) ma si amplia di significato se prendiamo in
considerazione alcuni testi in cui compare la stessa parola. Nel Libro dei
Numeri si legge: «Mosè era un uomo molto
mansueto, più di chiunque altro sulla terra» (Nm 12,3). Chi è il mite nell’AT? È il giusto (zaddiq), colui che davanti al
successo e allo strapotere dei malvagi non si lascia vincere dalla gelosia o
dalla collera, non si lascia tentare dall’agire come loro, non si vendica
ricorrendo alla violenza, ma persevera nella sua adesione a Dio, nella sua
attesa piena di fede. Nel Vangelo di Matteo Gesù afferma: «Prendete il mio giogo sopra di voi e
imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Cristo è il nuovo, l’autentico Mosè, il
mite per eccellenza (questo è il pensiero fondamentale sotteso a tutto il
Discorso della Montagna) – in lui si rende presente quella pura bontà che si
addice proprio a Colui che è grande, che esercita il dominio.
Un altro testo fa da allaccio tra l’AT e il NT. Nel profeta Zaccaria
troviamo la seguente promessa di salvezza: «Esulta
grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene
il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile (mansueto), cavalca un asino…
annunzierà la pace alle genti» (Zc 9,9). Qui viene annunciato un re povero, uno che non regna per mezzo
del potere politico e militare. La sua natura più intima è l’umiltà e questa lo
oppone ai grandi re del mondo, egli giunge cavalcando un’asina – la cavalcatura
dei poveri, immagine contrastante con i carri da guerra che egli esclude: egli
non è un messia bellicoso, è il re della pace.
La mitezza di Cristo non è stata per lui solo un discorso
programmatico, uno slogan elettorale (visto che siamo in tempo di elezioni!)
perché Gesù l’ha sempre vissuta in tutta la sua vita, fino alla sua passione e
morte, quando «insultato non rispondeva
con insulti, maltrattato non minacciava vendetta» (1 Pt 2,23). È in questo
senso che Matteo afferma che in lui si compiono le parole di Isaia sul Servo
del Signore: «Egli Non contesterà né
griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già
incrinata, non spegnerà una fiamma smorta» (Mt 12,19-20). Egli è discreto,
non pretende di imporre la sua presenza.
Proprio per aver vissuto la
mitezza Gesù l’ha richiesta ai discepoli, con l’autorevolezza di chi mette in pratica fino all’estremo ciò che
domanda agli altri e noi siamo chiamati a far propria la mitezza di Cristo; mitezza che nasce dalla rinuncia al
desiderio di potere, all’accantonamento delle pretese, del successo, della
ricchezza, al dire no alla violenza, all’aggressività. Ecco i suoi precetti
sulla mitezza: «Avete inteso che fu
detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al
malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli
anche l’altra… Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il
tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi
perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa
sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti
e sugli ingiusti» (Mt 5,38.44). Gesù chiede così di spezzare la catena
infernale dell’odio e della violenza. Il discepolo di Gesù non deve rispondere
alla violenza con la violenza, al male con il male, all’odio con l’odio, ma con
l’amore, la preghiera e la benedizione. La mitezza richiesta da Gesù è una
virtù che esige grande forza d’animo e un completo dominio di se stessi: è la
virtù dei forti, è la «violenza dei
pacifici» (frere Roger Schutz)! A chi vive questa beatitudine è legata la promessa di ricevere in eredità la terra.
Che cosa significa? Non la proprietà terriera ma il luogo in cui Dio si rende presente pienamente perché trova un
popolo disponibile ad accoglierlo e a farlo regnare – lui re della mitezza – su
di lui. La terra che erediteranno i miti sarà quella nella quale Dio sarà
lodato e nella quale vi sarà perfetta giustizia, il regno in cui Dio regna.
Fermiamoci in questa meditazione a contemplare la mitezza di Cristo
perché tale mitezza sia trasferita dalla sua vita nella tua, perché da grazia
sua diventi tua virtù, una mansuetudine da portare nelle situazioni che in ogni
giorno ti troverai a vivere. Così Cristo vivrà in te e continuerà ad essere
presente in questo mondo per mezzo di te. Chi non vive momenti di conflitto,
situazioni in cui l’ira d’un tratto si scatena, relazioni che mettono a dura
prova la pazienza? Gesù non ignora le fatiche della vita eppure osa affermare
«Beati i miti» e dicendo queste parole non annuncia solo una virtù da vivere,
un compito lasciato alla nostra buona volontà, ma infonde una grazia da
ricevere: egli chiede di unirsi al suo cuore mite e umile perché anche il tuo
cuore diventi mite e umile. Gesù è il modello della mitezza, se guardi alla sua
vita vedrai che egli non impone con la forza la Verità, non piega con il potere
la volontà dell’uomo, non costringe al bene e non risponde al male con il male,
non dà spazio all’ira nel suo cuore, neanche quando, durante la sua atroce
passione, viene investito fino alla morte dalla malvagità umana. Egli resiste
alla tentazione della violenza, anche quando ricorrere ad essa parrebbe cosa
legittima. Gesù ha fatto della mitezza e della non violenza il segno della vera
grandezza. Dopo Cristo, la grandezza non consiste più nell’elevarsi sopra gli
altri, ma nell’abbassarsi per servire ed elevare gli altri. Se il mondo esalta
il sacrificio del debole a favore del forte, Cristo esalta il sacrificio del
forte a favore del debole. Dopo Cristo, la grandezza non sta più nel rispondere
alla violenza con una violenza maggiore, alla vendetta con una vendetta più
grande, alla prepotenza con una sopraffazione maggiore. Se il mondo esalta chi
pur di farsi grande sgomita con violenza sugli altri, Cristo esalta chi con
mitezza e sa fare spazio all’altro.
Nel silenzio, pensando alle situazioni di conflitto della tua vita,
chiedi a Dio il dono della mansuetudine del cuore perché ogni tuo atteggiamento
sia un riflesso del suo.
Chi è mite non rinuncia alla lotta per debolezza, per paura o per
rassegnazione. Anzi, la mitezza vuole essere un seme di pace piantato nel
terreno dello scontro. Ma nessuno può essere mite senza la rinuncia interiore
alla vanagloria, alla cupidigia dei beni e all’orgoglio: nessuno può essere
mite se non mette il proprio “io” da parte. Chi desidera affermare se stesso non
potrà essere mite. La mitezza evangelica che la terza beatitudine ci propone è
un dono divino che il Signore vuole far fiorire nel tuo cuore come amore per
l’altro, perdono, rigetto della violenza, fiducia nel giudizio di Dio. Egli
desidera formare in te l’immagine di Gesù e fare di te una persona mite è
paziente, benigna, benevola, docile, buona, dolce, mansueta, clemente,
affabile, umana e gentile. Quanto bisogno ne ha questo mondo di una tale
presenza all’interno di una società che si è fatta crudele, dura, spietata e
offensiva. Sant’Ignazio di Antiochia suggeriva ai cristiani del suo tempo, nei
confronti del mondo esterno, questo atteggiamento sempre attuale: «Davanti alla
loro ira siate miti; di fronte alla loro arroganza siate umili». Se infatti non
testimoni il vangelo nella mitezza, allora anche il contenuto del vangelo sarà
contraddetto dalla tua condotta. Se sarai mite, per te è la promessa della
terra. Non solo la terra definitiva che è la vita eterna, ma quella terra che
sono i cuori degli uomini. I miti conquistano la fiducia, attirano gli animi.
Diceva San Francesco di Sales, il santo della mitezza e della dolcezza: «Siate
più dolci che potete e ricordatevi che si prendono più mosche con una goccia di
miele che con un barile di aceto». Gesù dice: «imparate da me che sono mite e
umile di cuore». La vera mitezza si decide lì, nel cuore, perché è nell’intimo
dell’uomo che si scatenano le più grandi esplosioni di violenza, le guerre e le
liti. Non c’è solo una violenza delle mani, c’è anche una violenza dei
pensieri.
4° INCONTRO: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» è la quarta beatitudine sulla quale ci fermiamo a meditare stasera. Questa è la versione di Matteo, mentre in Luca suona così: «Beati voi che avete fame perché sarete saziati». Partiamo da questa seconda versione. Come si fa a proclamare beati gli affamati, in un mondo che ancora annovera milioni di persone e di bambini che muoiono di fame, mentre altri si riempiono di cibo fino a rovinarsi la salute e gettare tonnellate di cibo nella spazzatura? È un’indignazione più che giusta ed è condivisa da Gesù stesso, che a quella beatitudine fa seguire subito un “guai”: «Ma guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame». Gesù ha pronunciato la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31) proprio per denunciare questa situazione. Gli affamati delle beatitudine lucane non sono una categoria di poveri diversa dai poveri menzionati nella prima beatitudine. Sono gli stessi poveri considerati nell’aspetto più drammatico della loro condizione: la mancanza di cibo. Parallelamente, i “sazi” sono i ricchi che nella loro prosperità possono soddisfare non solo il bisogno, ma anche la voluttà del mangiare. Anche la parabola del ricco epulone considera povertà e ricchezza sotto l’angolatura della mancanza o sovrabbondanza di cibo: il ricco «banchettava ogni giorno lautamente»; il povero bramava invano di «sfamarsi con quello che cadeva dalla mensa del ricco». Il contrasto continua, rovesciato, nell’aldilà: un tempo Lazzaro desiderava sfamarsi almeno con le briciole che cadevano dalla mensa del ricco; ora è il ricco che implora da Lazzaro alcune gocce d’acqua per placare la sua sete. La parabola però non spiega solo chi sono gli affamati e chi i sazi, ma anche e soprattutto perché i primi sono dichiarati beati e i secondi sventurati. Il ricco epulone e tutti gli altri ricchi di cui Gesù parla nel vangelo non sono condannati per il semplice fatto di essere ricchi, ma per l’uso che fanno o non fanno della loro ricchezza. La ricchezza e la sazietà tendono a racchiudere l’uomo in un orizzonte terreno, perché «dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Lc 12,34); distraggono il cuore portandolo a ingolfarsi di piacere e lo rendono indisponibile ad accogliere il seme della Parola di Dio (cf. Lc 21,34); gli fanno dimenticare che la notte seguente potrebbe essergli chiesto conto della sua vita (Lc 16,19-31). Il ricco è sventurato perché la ricchezza gli rende l’entrata nel regno «più difficile che per un cammello passare per la cruna di un ago» (Lc 18,25).
6° INCONTRO: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio
4° INCONTRO: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati
«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» è la quarta beatitudine sulla quale ci fermiamo a meditare stasera. Questa è la versione di Matteo, mentre in Luca suona così: «Beati voi che avete fame perché sarete saziati». Partiamo da questa seconda versione. Come si fa a proclamare beati gli affamati, in un mondo che ancora annovera milioni di persone e di bambini che muoiono di fame, mentre altri si riempiono di cibo fino a rovinarsi la salute e gettare tonnellate di cibo nella spazzatura? È un’indignazione più che giusta ed è condivisa da Gesù stesso, che a quella beatitudine fa seguire subito un “guai”: «Ma guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame». Gesù ha pronunciato la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31) proprio per denunciare questa situazione. Gli affamati delle beatitudine lucane non sono una categoria di poveri diversa dai poveri menzionati nella prima beatitudine. Sono gli stessi poveri considerati nell’aspetto più drammatico della loro condizione: la mancanza di cibo. Parallelamente, i “sazi” sono i ricchi che nella loro prosperità possono soddisfare non solo il bisogno, ma anche la voluttà del mangiare. Anche la parabola del ricco epulone considera povertà e ricchezza sotto l’angolatura della mancanza o sovrabbondanza di cibo: il ricco «banchettava ogni giorno lautamente»; il povero bramava invano di «sfamarsi con quello che cadeva dalla mensa del ricco». Il contrasto continua, rovesciato, nell’aldilà: un tempo Lazzaro desiderava sfamarsi almeno con le briciole che cadevano dalla mensa del ricco; ora è il ricco che implora da Lazzaro alcune gocce d’acqua per placare la sua sete. La parabola però non spiega solo chi sono gli affamati e chi i sazi, ma anche e soprattutto perché i primi sono dichiarati beati e i secondi sventurati. Il ricco epulone e tutti gli altri ricchi di cui Gesù parla nel vangelo non sono condannati per il semplice fatto di essere ricchi, ma per l’uso che fanno o non fanno della loro ricchezza. La ricchezza e la sazietà tendono a racchiudere l’uomo in un orizzonte terreno, perché «dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Lc 12,34); distraggono il cuore portandolo a ingolfarsi di piacere e lo rendono indisponibile ad accogliere il seme della Parola di Dio (cf. Lc 21,34); gli fanno dimenticare che la notte seguente potrebbe essergli chiesto conto della sua vita (Lc 16,19-31). Il ricco è sventurato perché la ricchezza gli rende l’entrata nel regno «più difficile che per un cammello passare per la cruna di un ago» (Lc 18,25).
Nella parabola del ricco epulone Gesù
fa intendere che ci sarebbe, per il
ricco, una via d’uscita: quella di ricordarsi di Lazzaro alla sua porta e
condividere con lui il suo lauto pasto. Il rimedio è di farsi «amici poveri con
le ricchezze». La sazietà però anestetizza lo spirito e rende difficile
imboccare questa strada e questo spiega il perché del “guai” rivolto ai ricchi
e ai sazi. Un “guai” che nasce anch’esso da amore e che, più che un
“maledetti!”, è un “attenti!”. Il
miglior commento alla beatitudine dei poveri e degli affamati è quello che dice
Maria nel Magnificat: «Ha ricolmato
di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Lc 1,51-53). Ora,
guardando alla storia, non pare ci sia stata una rivoluzione sociale per cui i
ricchi sono impoveriti e gli affamati sono stati saziati di cibo. Il rovesciamento è avvenuto, ma nella fede!
In Gesù si è manifestato il regno di Dio, e questa cosa ha provocato una
silenziosa ma radicale rivoluzione. Come
se si fosse scoperto un bene che, di colpo, ha svalutato la moneta corrente.
Si è rivelata infatti una nuova ricchezza, come dice san Giacomo: «Dio ha
scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno» (Gc
2,5).
Il più grande peccato contro i poveri e gli affamati è forse
l’indifferenza, il far finta di non vedere, il «passar oltre, dall’altra parte
della strada» (cf.
Lc 10,31). Come disse San Giovanni Paolo II, ignorare la sofferenza dei poveri
significa «assimilarci al ricco epulone che fingeva di non conoscere Lazzaro». Noi tendiamo a mettere dei doppi vetri tra
noi e i poveri. L’effetto dei doppi vetri è che impedisce il passaggio del freddo
e dei rumori, stempera tutto, fa giungere tutto attutito, ovattato. E
infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo
televisivo, sulle pagine dei giornali, ma il loro grido ci giunge come da molto
lontano. Non arriva al cuore, o vi arriva solo per un momento. La prima cosa da fare dunque nei confronti
dei poveri è rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza, l’insensibilità,
gettare via le difese e lasciarci invadere a una sana inquietudine a causa
della miseria spaventosa che c’è nel mondo. Siamo chiamati a condividere il
sospiro di Cristo: «Sento compassione per questa folla che non ha niente da
mangiare».
Nella
versione del vangelo di Matteo questa beatitudine non parla di fame materiale,
ma di fame e sete «di giustizia». Fame e sete possono anche diventare segno di
bisogni spirituali. Per questo nelle Sacre Scritture leggiamo espressioni come:
«fame di ascoltare le parole del Signore» (Am 8,2), «sete del Dio vivente» (Sal
42,3), «fame di sapienza» (Pr 9,1-5). Proprio questa esperienza di fame e di
sete può essere cantata dal profeta Isaia: «Per amore di Sion non tacerò, per
amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la
sua giustizia» (Is 62,1). Chi crede ha fame, ha sete, ha desiderio che la
giustizia di Dio, quella che rende a ogni uomo la sua dignità di figlio e di
fratello, sia instaurata nella comunità umana. Ciò è ribadito anche dal
comandamento di Dio e del prossimo, amori inseparabili, due facce della stessa
medaglia. Come non è possibile amare Dio che non si vede senza amare il
fratello che si vede (cf. 1 Gv 4,20), così non è possibile partecipare della
vita di Dio senza collaborare con la sua volontà che la giustizia si compia
sulla terra, tra gli uomini. Stare dalla parte degli affamati e dei poveri
rientra tra le opere di giustizia e sarà anzi, secondo Matteo, il criterio in
base al quale avverrà alla fine la separazione tra i giusti e gli ingiusti. È
l’amore del prossimo dunque che deve spingere gli affamati di giustizia a
preoccuparsi degli affamati di pane. Gesù ha espresso tutto questo con parole
che non necessitano di commento: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti,
che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi
dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà,
troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,7-8). Chiediamo nel silenzio il dono della
fede perché anche il nostro cuore si apra al desiderio di giustizia per ogni
uomo.
Circa
la parola «giustizia», c’è un brano molto importante nel discorso della
montagna che dice: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte
queste cose vi saranno date in aggiunta». Vi è indicata una priorità per la
nostra vita: cercare anzitutto e più di ogni altra cosa il regno di Dio e la
sua giustizia: questa ricerca equivale alla fame di giustizia, la quale esige
che il Regno venga, si faccia realtà, che Dio regni sui credenti nel mondo.
Cercare la giustizia significa dunque per il cristiano sforzarsi di compiere la
volontà di Dio sulla terra così come avviene nel cielo. Su questa giustizia del
cristiano, Gesù nel discorso della montagna fornisce due avvertimenti più
particolareggiati: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e
dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). Non basta
un’adesione formale e apparente, la giustizia che il Signore ci chiede deve
calare nel cuore. Non basta non uccidere una persona, occorre anche non nutrire
sentimenti di odio; non basta non commettere adulterio, occorre avere un cuore
puro; non basta amare quelli che ci amano, occorre amare anche il nemico.
L’altro
ammonimento di Gesù riguarda lo stile con cui praticare la giustizia: «State
attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere
ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro
che è nei cieli» (Mt 6,1). Gesù ci chiama all’amore, non per esibizione di noi
stessi avendo come ricompensa l’ammirazione degli uomini, ma per restituire
agli altri l’amore che abbiamo ricevuto in dono da lui.
5° INCONTRO: Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia
La quinta beatitudine nell’ordine di
Matteo dice: «Beati i misericordiosi
perché troveranno misericordia». Le
beatitudini sono un autoritratto di Cristo e perciò ci invitano a porci una
domanda: come ha vissuto Gesù la
misericordia? Che cosa dice la sua vita su questa beatitudine?
Nella Bibbia, la parola misericordia (hesed) si presenta con due
significati: 1) indica l’atteggiamento della parte più forte
(nell’Alleanza, Dio stesso) verso la parte più debole e si esprime di solito
nel perdono delle infedeltà e delle colpe; 2) indica l’atteggiamento verso il
bisogno e la sofferenza dell’altro e si esprime nelle cosiddette “opere di
misericordia”. C’è, per così dire, una
misericordia del cuore e una misericordia delle mani. Nella vita di Gesù
risplendono entrambe queste due forme. Egli riflette la misericordia di Dio
verso i peccatori, ma si impietosisce anche di tute le sofferenze e i bisogni
umani, interviene per dare da mangiare alle folle, guarisce i lebbrosi, libera
gli oppressi. Dice l’evangelista: «Ha
preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17).
Nella nostra beatitudine, il senso prevalente è certamente il primo,
quello del perdono e della remissione dei peccati. Lo deduciamo dalla corrispondenza
tra la beatitudine e la sua ricompensa: «Beati
i misericordiosi, perché troveranno misericordia», s’intende presso Dio che
rimetterà i loro peccati. La frase: «Siate
misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro» viene spiegata subito
così: «Perdonate e vi sarà perdonato»
(Lc 6,36-37). Dice Sant’Agostino: «Sei un mendicante alla porta di Dio, ma c’è un altro
mendicante davanti alla tua porta: quel che farai con il tuo mendicante, Dio lo
farà con il suo».
È nota l’accoglienza che Gesù riserva
ai peccatori nel vangelo e l’opposizione che essa gli procurò da parte dei
difensori della legge che lo accusavano di essere «un mangione e beone, amico
dei pubblicani e peccatori» (Lc7,34). Ma Gesù risponde: «Non sono venuto a
chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,17). Sentendosi da lui accolti e non
giudicati, i peccatori lo ascoltavano volentieri. Ma chi erano questi peccatori?
Gesù non nega che esista il peccato e che esistano i peccatori, non giustifica
le frodi di Zaccheo o l’adulterio della donna. Il fatto di chiamarli “i malati”
lo dimostra. Quello che Gesù condanna è
di stabilire da sé qual è la vera giustizia (come facevano i farisei) e
considerare tutti gli altri «ladri, ingiusti, adulteri», negando loro perfino
la possibilità di cambiare. È significativo il modo in cui Luca introduce
la parabola del fariseo del pubblicano: «Disse
questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli
altri» (Lc 18,9). Gesù era più severo con coloro che
condannavano i peccatori, che verso i peccatori stessi.
Gesù giustifica la sua condotta verso i peccatori dicendo che così agisce
il Padre celeste. Ai
suoi oppositori egli ricorda la parola di Dio nei profeti: «Voglio la misericordia, non il sacrificio»
(Mt 9,13). La misericordia verso l’infedeltà del popolo è il tratto più
saliente del Dio dell’alleanza e riempie la Bibbia da un capo all’altro. Essere
misericordiosi appare così, per la creatura, un aspetto essenziale del suo
essere «a immagine e somiglianza di Dio». «Siate
misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36) è una
parafrasi del famoso: «Siate santi perché
io, il Signore Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2). Ma la cosa più sorprendente circa la misericordia di Dio è che egli prova
gioia nell’aver misericordia. Conclude la parabola della pecorella smarrita
dicendo: «Ci sarà più gioia in cielo per
un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di
conversione» (Lc 15,7). La donna che ha ritrovato la dramma smarrita grida
alle amiche: «Rallegratevi con me».
Nella parabola del figliol prodigo, poi, la gioia straripa e diventa festa,
banchetto. Non si tratta di un tema isolato, ma profondamente radicato nella
Bibbia. In Ezechiele Dio dice: «Io non
godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua
malvagità e viva» (Ez 33,11). Michea dice che Dio «si compiace di manifestare il suo amore» (Mi 7,18) cioè, di avere
misericordia.
Ma perché una pecora deve contare
sulla bilancia quanto tutte le rimanenti messe insieme e a contare di più deve
essere proprio quella che è scappata e che ha creato più problemi? Una
spiegazione convincente l’ha data il poeta Charles Péguy. Smarrendosi, quella pecorella, come pure il figlio minore, ha fatto
tremare il cuore di Dio. Dio ha temuto di perderla per sempre, di essere
costretto a condannarla e privarsene in eterno. Questa paura ha fatto sbocciare la speranza in Dio e la speranza, una
volta realizzatasi, ha provocato la gioia e la festa.
Che dire allora delle novantanove
pecorelle giudiziose e del figlio maggiore? Ricordiamo cosa risponde il Padre
al figlio maggiore: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che
è mio è tuo» (Lc 15,31). Essere sempre nella casa del Padre non è un
merito, è un privilegio donato a chi impara a vivere da figlio e non da servo.
Nella
beatitudine di questa sera Gesù ci dice: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», e nel
Padre nostro ci fa pregare così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
Dice anche: «Se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro
perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,15). Dobbiamo interpretare bene queste frasi,
altrimenti potrebbero indurci a pensare che la misericordia di Dio verso di noi
sia un effetto della nostra misericordia verso gli altri, e sia proporzionata
ad essa. Come se Dio si adeguasse al nostro comportamento e alle nostre misure.
Ma non può essere così, perché l’amore di Dio rimane sempre gratuito e
incondizionato, e la grazia che egli ci dona non è legata alle nostre opere. La
parabola dei due servitori (Mt 18,23ss) ci fornisce la chiave per interpretare
correttamente il rapporto tra la misericordia di Dio e la nostra. Lì si vede
come è il padrone che, per primo, senza condizioni, rimette un debito immenso
al servo (diecimila talenti), ed è proprio la sua generosità che avrebbe dovuto
spingere il servo ad avere pietà di colui che gli doveva la misera somma di
cento denari.
Dobbiamo
dunque avere misericordia perché per primi abbiamo ricevuto misericordia,
perdonare agli altri perché per primi siamo stati perdonati da Dio; però, è
anche vero che se non ridoniamo agli altri quello che abbiamo ricevuto, la
misericordia di Dio non avrà effetto in noi e ci verrà ritirata, come il
padrone della parabola la ritirò al servo spietato. La grazia di Dio previene
sempre ed è essa che crea il dovere: «Come il Signore vi ha perdonato, così
fate anche voi» scrive san Paolo ai colossesi (Col 3,13). Preghiamo il Signore
nel silenzio perché conceda al nostro cuore di riconoscere quanto siamo amati
dal Padre e quante volte il suo perdono ci ha risollevati dalle nostre colpe, e
domandiamo la grazie di perdonare davvero, dal profondo del cuore, coloro che
ci hanno fatto del male.
Ogni
beatitudine ci tocca nel cuore e ci chiama a conversione. San Paolo esortava i
colossesi con queste accorate parole: «Scelti da Dio, santi e amati,
rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di
mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni
gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come
il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3,12-13). Noi esseri
umani – diceva sant’Agostino – siamo come vasi di creta che, solo sfiorandosi,
si fanno del male». Non possiamo vivere insieme in armonia, nella famiglia come
in ogni altro tipo di comunità, senza la pratica del perdono e della
misericordia reciproca. Il perdono è per una comunità quello che è l’olio per
il motore. Se ti metti in viaggio su un’auto che non ha neppure una goccia d’olio
nel motore, dopo pochi minuti vedrai andare tutto in fiamme. Come l’olio, anche
il perdono scioglie gli attriti. L’olio che dobbiamo mettere negli ingranaggi
della vita sono soprattutto le parole buone. L’apostolo esortava i cristiani di
Efeso: «Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole
buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che
ascoltano» (Ef 4,29). E nel libro dei Proverbi è scritto: «Una parola buona è
un albero di vita, quella malevola è una ferita al cuore» (Pr 15,4). Una parola
buona, di incoraggiamento, di pace, è un balsamo dei rapporti umani. Cerchiamo ora
concretamente di individuare, tra i nostri rapporti con le persone, quello nel
quale ci sembra più necessario far penetrare l’olio della misericordia, della
bontà e del perdono, e versiamocelo silenziosamente, con abbondanza, dal
profondo del cuore. Dove si vive così, nel perdono e nella misericordia
reciproca, il Signore «dona la sua benedizione e la vita per sempre».
6° INCONTRO: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio
Chi ascolta la beatitudine: «Beati i puri di cuore»,
pensa istintivamente alla virtù della purezza, quasi che la beatitudine sia
l’equivalente positivo e interiorizzato del sesto comandamento: «Non commettere
atti impuri». In realtà, nel pensiero di Cristo, la purezza del cuore non
indica una virtù particolare, ma una qualità che deve accompagnare tutte le
virtù perché esse siano davvero delle virtù e non invece “splendidi vizi”. Il
suo contrario più diretto non è l’impurità ma l’ipocrisia. Secondo il vangelo,
quello che decide della purezza o impurità di un’azione – sia essa l’elemosina,
il digiuno o la preghiera – è l’intenzione: cioè se è fatta per essere visti
dagli uomini o per piacere a Dio. Diceva sant’Agostino: «Tutte le nostre azioni
sono oneste e gradite alla presenza di Dio, se sono compiute con il cuore
schietto. Non si deve considerare tanto l’azione che si compie, quanto
l’intenzione con cui si compie». L’ipocrisia è il peccato denunciato con più
forza da Dio lungo tutta la Bibbia e il motivo di ciò è chiaro. Con essa l’uomo
declassa Dio, lo mette al secondo posto collocando al primo posto se stesso e
il pubblico che lo ammira. Eppure, si dice nel primo libro di Samuele: «L’uomo
guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1 Sam 6,7). Coltivare
l’apparenza più che il cuore, significa dare più importanza all’uomo che a Dio.
Il giudizio di Cristo sull’ipocrisia è senza appello: «Hanno già ricevuto la
loro ricompensa», una ricompensa, quella dell’ammirazione altrui, illusoria
anche sul piano umano, perché la gloria, si sa, fugge chi la insegue e insegue
chi la fugge». Aiutano a capire il senso della beatitudine dei puri di cuore
anche le invettive che Gesù pronuncia nei confronti di scribi e farisei. Esse
sono tutte incentrate sull’opposizione tra il “di dentro” e il “di fuori”,
l’interiore e l’esteriore dell’uomo: «Guai
a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati:
all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni
marciume. Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma
dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità» (Mt 23,27-28). La
rivoluzione realizzata in questo campo da Gesù è di una portata incalcolabile.
Prima di Cristo, la purità era intesa in senso prevalentemente rituale e
cultuale; consisteva nel tenersi lontani da cose, animali, persone o luoghi
ritenuti capaci di contagiare negativamente e separare dalla santità di Dio.
Gesù fa piazza pulita di tutti questi tabù. Anzitutto con i gesti che compie:
mangia con i peccatori, tocca i lebbrosi, frequenta i pagani: tutte cose
ritenute altamente inquinanti; poi con gli insegnamenti che impartisce:
«Chiamata di nuovo la folla, diceva loro:
«Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che,
entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a
renderlo impuro» E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal
di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male:
impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza,
invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori
dall’interno e rendono impuro l’uomo» (Mc 7,14-45.21-23). «Dichiarava così puri tutti gli
alimenti», nota quasi con stupore l’evangelista. Contro il tentativo di alcuni
giudeo-cristiani di ripristinare la distinzione tra puro e impuro nei cibi e in
altri settori, la Chiesa apostolica ribadirà con forza: «Tutto è puro per puri»
(Tt 1,15).
La purezza, intesa nel senso di continenza e
castità, non è assente dalla beatitudine evangelica (tra le cose che inquinano
il cuore Gesù pone anche, abbiamo sentito, «fornicazione, adulteri e
impudicizia»); vi occupa però un posto limitato e, per così dire, secondario. È
un ambito accanto ad altri in cui viene messo in rilievo il posto decisivo che
occupa il «cuore», come quando dice che «chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,28).
Ora, il cuore puro apre la strada all’unione con
Dio. Bisogna purificare il cuore da ogni legame malsano e da ogni male, in
questo modo il cuore dell’uomo tornerà ad essere quella pura e limpida immagine
di Dio che era all’inizio, e nella propria anima, come in uno specchio, la creatura
potrà vedere Dio. Avere il cuore puro è il mezzo per giungere a vedere Dio.
Quando il cuore ama
Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40), quando questo è la sua vera intenzione e
non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio.
Abbiamo
riflettuto nella meditazione iniziale che nel pensiero di Cristo la purezza di
cuore non si oppone primariamente all’impurità ma all’ipocrisia, e quello
dell’ipocrisia è il vizio umano forse più diffuso e meno confessato. L’uomo –
ha scritto Pascal – ha due vite: una è la vita vera, l’altra quella immaginaria
che vive nell’opinione, sua o della gente. Noi lavoriamo senza posa ad
abbellire il nostro essere immaginario e trascuriamo quello vero. Se possediamo
qualche virtù o merito, ci diamo premura di farlo sapere, cerchiamo in un modo
o nell’altro di far parlare di noi. Questa tendenza è accresciuta dalla cultura
attuale, dominata dai mass media, televisione e mondo dello spettacolo in
genere, dove ciò che conta è l’apparire.
All’origine,
il termine “ipocrisia” era riservato all’arte teatrale e significa
semplicemente il “recitare una parte”. Questo ci aiuta a scoprire la natura
dell’ipocrisia. Essa è fare della vita un teatro in cui si recita per un
pubblico: è indossare una maschera, cessare di essere una persona e diventare
un personaggio. Il personaggio, però, non è altro che la corruzione della
persona. La persona è un volto, il personaggio una maschera. La persona è nuda,
il personaggio è tutto abbigliamento. La persona ama l’autenticità e l’essenzialità,
il personaggio vive di finzioni e di artifici. La persona obbedisce alla
proprie convinzioni, il personaggio obbedisce al copione. La persona è umile e
leggera, il personaggio è pesante e ingombrante.
Il
richiamo all’interiorità della nostra beatitudine è un invito a non lasciarci
travolgere da questa tendenza ad apparire che finisce per svuotare la persona.
Chi vive di maschere, vive sempre e solo al cospetto degli uomini, perde se
stesso per acquistarsi l’opinione altrui, ma non vive mai al cospetto di Dio,
l’unico che guarda oltre le apparenze e scruta il cuore dell’uomo. Per questo
san Francesco amava dire: «Quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non
di più». Nel silenzio, depositiamo le nostre maschere ai piedi del Signore e
chiediamogli in dono un cuore puro.
Parlando
dell’ipocrisia, la cosa peggiore che si possa fare, è quella di servirsene solo
per giudicare gli altri. È proprio a costoro che Gesù applica il titolo di
ipocriti: «Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene
per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello» (Mt 7,5). L’ipocrisia
insidia soprattutto le persone pie e religiose, e il motivo di ciò è semplice:
dove più forte è la stima dei valori dello spirito e della virtù, li è più
forte anche la tentazione di ostentarli per non sembrarne privi. Cosa
penserebbe la gente di me che sono tanto religioso, che vado sempre in chiesa,
se non mi mostrassi così come dovrei essere? Se non sono fossi altezza degli
standard di accettazione e di stima degli altri, magari anche quando il cuore
vive la sua fatica e la sua fragilità? In realtà, l’ipocrisia più pericolosa è
quella di nascondere la propria ipocrisia e sotterrare le proprie fragilità.
Nessun uomo, se non Gesù stesso, è alieno da questo peccato. Eppure, è difficile
trovare in un esame di coscienza la domanda: “Sono stato ipocrita? Mi sono
preoccupato dello sguardo degli uomini su di me, più di quello di Dio?» Gesù ci
ha lasciato un mezzo semplice e insuperabile per rettificare più volte al
giorno le nostre intenzioni. Sono le prime tre domande del Padre nostro: «Sia santificato il tuo nome. Venga il tuo regno. Sia
fatta la tua volontà». Possiamo recitarle come preghiere, ma anche come
dichiarazione di intenzioni: tutto quello che faccio, voglio farlo perché sia
santificato il tuo nome, perché venga il tuo regno, perché sia fatta la tua
volontà. Allora, la purezza diventa trasparenza della persona, omogeneità tra
l’interno e l’esterno, corrispondenza tra la parola e il pensiero, tra i gesti
e le intenzioni. Da questa armonia dell’insieme, da questa trasparenza, filtra
la luce di Dio che inonda la persona e le fa sperimentare la pace e la gioia.
Nel silenzio, chiediamo al Signore di non aver paura delle nostre fragilità e delle
nostre contraddizioni. Il suo amore per noi non viene mai meno, questa è la
nostra forza.
Entriamo nell’ultimo momento della nostra preghiera.
Rivolgiamoci al Padre lasciandoci aiutare da San Francesco che in una sua
Ammonizione sulla purezza del cuore dice: Ammonizioni dice: «Veramente puri di cuore
sono coloro che disprezzano le cose terrene e cercano le cose celesti, e non cessano
mai di adorare e vedere sempre il Signore Dio, vivo e vero, con cuore e animo
puro». Le «cose terrene» che i puri di cuore devono disprezzare non sono per
Francesco le realtà visibili, ma ogni modo di essere, di pensare e di agire
estraneo o contrario alla santità di Dio. Ha il cuore puro chi vive un rapporto
di piena sintonia con il Padre, chi vive in sé i sentimenti, i pensieri e le
azioni di Gesù, chi può dire con san Paolo: «Non sono più io che vivo ma Cristo
vive in me».
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